MATRIOSKla

MATRIOSKla

giovedì 28 aprile 2011

A proposito di astronauti

Per chi volesse leggere qualcosa sul filone 'fanta-astronautica', consiglio questo libro bizzarro e godibilissimo, che rasenta la psichedelia e l'assurdo sapore di totalitarismo.

Omon Ra - Viktor Pelevin

Omon Krivomazov, giovane sovietico ossessionato dall’idea di diventare un eroe dello spazio, una stella del firmamento dell’era cosmica, si fa chiamare Ra  come la divinità egizia del sole. In realtà il suo nome battesimale non è altro che lo squallido acronimo di una forza speciale della polizia sovietica.  Omon, dunque, sarà il nuovo primo uomo che dovrà arrivare all’allunaggio e che, ignaro della grottesca e macabra farneticazione sovietica programmata alle sue spalle, diventerà solo l’ennesima vittima di una farsa politico-fantascientifica. L’aspirante cosmonauta, iscritto alla scuola segreta spaziale del KGB, è destinato infatti a una ridicola missione suicida, poiché in realtà, la tecnologia sovietica non ha né mezzi né conoscenza alcuna per accompagnare il suo uomo sul lato oscuro della luna e riportalo indietro. Simulacro di un viaggio agli estremi confini del nulla esistenziale, inesauribile epopea dell’eroe del cosmo e della celebrazione dell’homo sovieticus, il volo del falso dio del sole Ra non è altro che lo schianto di una dolce chimera, di connaturate domande interiori dell’uomo giunto all’incontro con la realizzazione del proprio io e dei propri sogni. Pelevin raccoglie i pezzi inesplosi di un gigantesco ‘dirigibile d’acciaio’ alla deriva verso un salto nell’oscurità, ripercorre l’estetica del mito sovietico deridendolo, facendo di ogni personaggio un rimando costante a una società perduta, con il grande merito di lanciare una nuova narrazione avant pop e presentando ai lettori la sua vena poetica in chiave asettica e filosofica. Se l’Urss fosse sopravvissuta a questo breve romanzo, avrebbe visto in esso un potente mezzo di de-sacralizzazione dei sapori di quel mito di cui i nostri tempi sono ormai del tutto privi.

Il mio voto a questo libro è 8/10

martedì 26 aprile 2011

Un paese scomparso 25 anni fa

Quando penso a Chernobyl penso al mio tema d'esame di quinta elementare. Il disastro era appena successo; il 26 aprile del 1986.
Quando penso a Chernobyl, nella mia mente, ho un'immagine come questa di fianco. Una stanza piena di banchi dove non c'è più nessuno, una classe abbandonata in tutta fretta dai suoi scolari, una fuga nucleare e una fuga verso la salvezza. Poi penso all'Urss e noto una certa somiglianza tra il disastro atomico e la disfatta del più potente paese socialista della storia.
Non è ora l'ex-Urss come una classe di scuola dove il maestro non può più insegnare niente, perchè non ci sono più scolari? E non ci sono più scolari perchè qualcosa di terribile è successo. L'Urss non ha più niente da insegnare al suo popolo; i banchi sono scrostati e fatiscenti, i muri sono di un colore fuori moda e nel guardarli si prova angoscia come nel guardare un confine che non si riesce ad oltrepassare.
Chernobyl è una metafora dell'Urss. Per via di un errore umano, per via di verità insabbiate, noncuranza e di un'atroce fatalità la vita è esplosa, l'economia non ha retto, la grande bugia sovietica è implosa ed è precipitata su se stessa. Gli uomini potevano solo scappare ormai. Il microcosmo della città di Pripjat, quella notte, è diventato lo specchio del volto vergognoso delle fandonie comuniste. Come greggi formicolanti, il povero Ivan e la povera Tatjana sono saliti a bordo di un autobus che li ha portati lontano dal loro paese, come profughi, ma senza varcare nessuna frontiera. La radiazione li avrebbe uccisi lentamente, l'idea del comunismo reale aveva già cominciato a logorarli. Qualche vecchio Piotr e qualche babushka Katjusha hanno deciso di rimanere nella loro città natale, non potendo credere ad altro che al 'raggio' o meglio, non credendo affatto che il raggio potesse fare loro alcun male.
Esistono una nuova fauna e una nuova flora a Chernobyl e si chiamano i 'nuovi russi'. Sono mutazioni genetiche, rigogliose e abnormi, prosperate a lungo sulle macerie di un paese che non esiste più. Non si sa quanti dei vecchi russi siano realmente stati uccisi dal 'raggio', nè quanti siano stati deportati in un enorme sarcofago di cemento sepolto nel nulla. Si sa solo che dall'occhio nero di una ciminiera sono usciti uomini diversi, con un nome diverso, con un futuro diverso e con una sola cosa che li lega al passato: essere russi.

lunedì 25 aprile 2011

50 anni fa un eroe sovietico...

Aprile è foriero di anniversari importanti e vorrei ricordarne un paio in particolare. Comincerò da quello più remoto.
Il 12 Aprile 1961 il maggiore Yurij Gagarin era nel cosmo per la prima volta nella storia dell'umanità. Non doveva essere molto dissimile dal vuoto spaziale la stazione di Bajkonur nel Kazachstan, quella mattina. Alle 9.07, ora di Mosca, schiaffeggiata dal vento della steppa, arsa dal sole dimenticato a sud dell'Unione Sovietica, la 'città delle stelle' lanciava un uomo di 27 anni  e il suo angusto uovo d'acciaio chiamato Vostok 1 verso una mirabolante orbita di 89 minuti attorno al pianeta Terra.
Avvolto da una tuta arancione, tra i denti una parola che sarebbe rimasta sulle bocche di ogni russo, per decenni, prima di alzare una ryumka ricolma di vodka: 'Poechali!'e con un eccellente morale e uno stato d'animo goliardico, un semplice contadino accecato dal sole ingannatore della supremazia comunista si tuffava nell'ignoto. Il casco bianco che incorniciava il sorriso smagliante di Yurij Alekseevic recava rosse lettere cirilliche, ricordando insieme alle parole di Nikita Chrusciov che era un homo sovieticus il conquistatore del cosmo.
Dall'alto la Terra era azzurra e senza confini, un gomitolo di lana rotolato nel buio dello spazio assoluto, un galleggiante appeso alla porta del nulla.
Il 13 aprile la voce gracchiante della radio sovietica annunciava trionfante il successo della missione a tutte le 15 repubbliche.
Mentre l'occidente osannava le sue rock star, l'Unione Sovietica mostrava stretto nel pugno il suo nuovo eroe sovietico al resto del mondo e lo eleggeva ennesimo strumento di una propoganda socialista senza fine, per la corsa allo spazio agli albori della Guerra Fredda.

Se vi capita di volare a Mosca, nella realtà o nella fantasia, potrebbe succedervi di sfiorare la testa di un monumento che ancora oggi brilla nel cielo dell'ex Urss; alto 40 metri, costruito in semplice acciaio nel 1980 situato in piazza Gagarin. Esso ritrae una corpulenta sagoma del cosmonauta nel suo eterno volo verso i cieli sconosciuti. Scomparso da questo pianeta insieme allo schianto di un semplice aereo in avaria, da lui stesso comandato, il 27 marzo del 1968, Yurij Gagarin fu insignito del titolo onorifico di 'Pilota-cosmonauta dell'Urss'.


venerdì 22 aprile 2011

DISCO DEL MESE

The King of Limbs - Radiohead

Non sono una fan dei Radiohead, ma della musica dei Radiohead. Anche se la voce di Thom Yorke è insostituibile, sono le loro idee che ogni due o tre anni attendo con trepidazione. Attendo quello che avranno da dirmi, come me lo diranno, attraverso quale tonalità, armonia o testo. Non importa come saranno queste idee, perchè so che aderiranno alla mia pelle come un collante, mi entreranno nelle orecchie a poco a poco come un veleno e poi all'improvviso, con gli occhi, troverò l'antidoto e l'immagine sarà composta: capirò ogni cosa.
Ufficialmente è uscito nei negozi il 28/03/2011; 'The King of Limbs' è un disco che somiglia a una collana. Otto piccole, preziose gemme lo compongono. Qualcuna brilla particolarmente, qualcun'altra tiene insieme tutte quante, ognuna ha una sua sfaccettatura. Se fossi un esperto gemmologo, sceglierei Little by little perchè incorpora tutto quello che i Radiohead sono: alienazione, inquietudine, frenesia, visceralità. Ma se fossi un oceanografo all'avanscoperta sceglierei la canzone d'esordio In Bloom, perchè l'immagine dell'apertura del disco si fonde perfettamente con quella di un pesce, forse un'enorme balena, che volteggiando spalanca la sua bocca per esalare un respiro universale. E nell'universo appena nato del disco ci si ritrova con in mano una geniale dissonanza, una storpiatura della voce di Yorke che in Morning Mr Magpie si sovrappone all'accusa alla gazza ladra immaginaria, rea di aver rubato la memoria e la melodia alla canzone stessa. Feral potrebbe essere uno psico-thriller cantato, una demoniaca filastrocca che porta ad una trance sotterranea, prima che il singolo Lotus Flower ci risvegli con un ritmo schizofrenico e una lirica lunghissima, alla quale aggrapparsi insieme al crescendo della musica e degli acuti e arrivare a Codex, ricordo dell'aldilà di Pyramid song in 'Amnesiac'.
Quasi come sfumature, ma incastonate a chiusura di questo piccolo gioiello, chiudono Give up the ghost e Separator riverberanti, di un lucore riflesso, ma mai scontate fino in fondo.
Un disco oscuro, difficilissimo, un tunnel nelle profonde meningi della testa radioheadiana, una pietra preziosa ancora un tuttuno con la terra, un viaggio nel sottobosco, dove le radici dei suoni nascondono vie sommerse tutte da percorrere e ripercorrere per molto tempo ancora.

Il mio voto a questo disco è 8/10

giovedì 21 aprile 2011

POESIA DEL MESE

Conoscete Evgenij Evtushenko?




Evgenij Evtushenko: poeta. Nasce a Zima nel 1933, in Siberia.
Vive a Mosca dall'età di 11 anni e qui compie gli studi letterari. Gli attacchi allo stalinismo e alla burocrazia dei tardi anni '50, lo rendono leader dei giovani intellettuali russi.
E' soprattuto nel 1961 con Babi Yar (denuncia contro l'anti-semitismo nazista e sovietico, pubblicato in Russia solo nel 1984, versi che ispirarono a Shostakovic la sinfonia n. 13) che gli ambienti internazionali si accorgono della sua opera.
Nel 1960 è il primo russo a varcare la cortina di ferro e a recitare i propri versi in Occidente.
Nel 1974 supporta Solzhenitsyn, quando il vincitore del premio Nobel viene arrestato e mandato in esilio. Con l'arrivo al potere di Gorbaciov, può finalmente far conoscere, dalle pagine del giornale di Ogonek, molti poeti censurati durante il regime di Stalin. Dopo il collasso del comunismo si fa promotore della realizzazione di un monumento dedicato alle vittime della repressione stalinista, collocato davanti alla Lubjanka, il quartier generale del Kgb.
La sua raccolta di poesie, 1952-1990, viene pubblicata nel 1991. In epoca post-sovietica scrive 'Non morire prima di essere morto' fiaba su Boris Yeltsin.
Le sue opere sono state tradotte in 72 lingue.

Cittadino russo, si divide fra la Russia e l'America, dove dal 1994, insegna poesia e cinematografia agli studenti dell'Università di Tulsa (Oklahoma).
Nel 2000 il 18 luglio, giorno del suo compleanno, Evtushenko ha ricevuto dall'Accademia Russa delle Scienze un insolito dono: è stato dato il suo nome a una stella del sistema solare.

'Dopo ogni lezione sempre in mille modi
ti contendono tutti, importunano.
Da bocche di ragazzi ascolti complimenti
pieni di dolciastre lusinghe.
Di cose belle nella vita ce ne sono tante:
gli appuntamenti, i fiori, il teatro.
Manca soltanto ciò che vorresti tu
manca, la cosa essenziale.

Ecco, tu corri su per le scale
hai diciott'anni
nella borsetta porti con il profilo
leniniano, il tesserino di membro
komsomoliano,
nel solitario tic tac della tua mezzanotte
nell'appartamento addormentato
ti chiedi

- lo so -

l'aiuto di qualche idea severa
e pensi alla rivoluzione
o cerchi il grande amore
mentre sciogli le grandi trecce folte
dei luminosi capelli castani.

Nella tua casa c'è solo questo battere lento della pendola
questo tuo parlare con l'anima
davvero sei molto piccola ancora
io al tuo confronto sono grande,
davvero grande.

Tu sei la giovanissima compagna di viaggio
io sono il tuo anziano compagno
mi assilla il pensiero di ciò che accadrà ai tuoi capelli castani
e se ti tormento con l'inquieta
ricerca di qualcosa di alto, di sublime
io che per primo in molte cose ho creduto,
è perchè adesso possa credere anche tu...'

mercoledì 20 aprile 2011

LIBRO DEL MESE

Tutti i figli di Dio danzano - Haruki Murakami

E' stata una coincidenza o forse potrei vederla in una maniera più drammatica e chiamarlo presagio. Ho acquistato questo libro di 6 racconti tutti accomunati da un unico concept, ossia il terremoto di Kobe del 1995, una settimana prima del terremoto di Sendai dell'11 marzo 2011.
Poi l'ho tenuto al caldo per qualche settimana, perchè di Murakami non mi rimane molto da leggere e dunque centellino accuratamente ogni volume, ogni capitolo, ogni pagina e ogni parola.
Non sono un tipo da lettura di racconti, ma per il maestro Murakami e per lui soltanto, spesso ho fatto eccezioni. So che ogni suo racconto è un potenziale romanzo. Perchè le sue brevi storie non raccontano, non dicono, ma insinuano. Insinuano che dietro ogni insulsa realtà vi sia un messaggio, un codice da decifrare, un doppio fondo, una porta girevole che condurrà da qualche altra parte. Ma la cosa più geniale è che la strada che sta oltre la conclusione del racconto è sempre una strada incerta, buia, priva di indicazioni. E' come una caduta nel sonno e poi nel sogno e poi nel pensiero e dunque forse soltanto dopo molto ragionare, verso una logica.
Una logica unica e scolpita ad immagine della mente che tenterà di trovarla.
Dunque ogni racconto potrebbe essere 'noi'. Ogni volta ritrovo una parte di me negli scritti di Murakami. Per esempio potrei somigliare all'uomo del racconto 'Atterra un ufo su Kushiro', che abbandonato dalla moglie deve portare un pacco alla sorella di un collega e poi realizza che dentro quel pacco c'è o forse c'era lui stesso. Oppure potrebbe capitare di sentirsi un peso sul cuore, come un rancore, un dolore, un rimpianto e come nel racconto 'Tailandia' voler fuggire lontano da tutti per poi capire che quel peso, come una pietra confiaccata nel petto, ha trasformato anche le parole in pietra e che l'unica soluzione è aspettare un sogno. Altrimenti si potrebbe essere dei prescelti: un giorno potrebbe arrivare un ranocchio, come in 'Ranocchio salva Tokyo' e dirci che potremmo essere proprio noi la ragione per cui anche le cose più terribili non accadranno e quindi avremo salvato noi stessi e altri intorno a noi.
Questi tre, sono quelli che dei 6 racconti di questa raccolta, mi hanno lasciato il segno dell'insinuazione, uno sprone alla riflessione, alla visione, al tormento. Gli altri 3 completano il puzzle.
Chi legge Murakami, non legge solo la realtà, ma legge il surreale, cerca un varco fra le trame dell'intangibile, del non leggibile, di cui nella realtà narrativa dello scrittore si percepisce una silenziosa presenza.
Con questo libro Murakami rende omaggio alla memoria del terremoto di Kobe, appende sullo sfondo di ogni storia il terribile evento come una fotografia, scava in ogni suo racconto un fosso, un precipizio; proprio come la terra muovendosi apre voragini, ingurgita, ruba e più tardi fa ritrovare talvolta vittime, talvolta superstiti, talvolta prescelti.

Il mio voto a questo libro è 8/10.


domenica 17 aprile 2011

Le mie prime Mizuno

Negli anni '90 andavano di moda le Nike e le Adidas, per almeno la prima metà del decennio ancora resistevano le Reebok. Quantomeno qui in Italia e a Milano. Chi non possedeva un paio di Nike Air Max faceva meglio a nascondere i propri piedi sotto al banco di scuola, tra il casco della moto e lo zaino dell'Invicta. Per chi giocava a basket esistevano le Reebok Pump, con tanto di cuscinetto arancione a forma di pallone sulla linguetta della scarpa a collo alto e infine ricordo le Adidas Gazelle con il loro aspetto retro, a metà tra l'intellettualoide e il trasandato, richiamavano alla mente gli atleti olimpionici dei paesi dell'est europeo. Io camminavo con un paio di quest'ultime ai piedi. Da lì in avanti, citando a memoria, era cominciata l'era della scarpa sneaker, ma soprattutto era iniziata la fine della scarpa 'da ginnastica' o 'da tennis', come le chiamavano i più sofisticati.
Per quasi tutto il decennio degli anni zero si calzavano soltanto Adidas Galaxy, Nike Silver e AsicsTiger Onitsuka, quest'ultime investite da un'ondata di popolarità straripante, quando Quentin Tarantino aveva pensato bene di infilarle al piede della sua cenerentola Uma Thurman abbinandole alla sua tuta gialla a fasce nere, nel celeberrimo Kill Bill vol.1.
Nell'ultimo paio d'anni sono tornati gli 'scarponi', cioè le scarpe tendenzialmente sneaker, ma piuttosto rinforzate, a pianta larga e a collo alto, quelle che negli States chiamano high tops.
Ovviamente da 'sneaker victim' quale sono, più o meno me ne sono comprate di tutti i modelli e di tutte le marche, ma dovevano essere sempre rigorosamente sneaker.

Ora, mettiamo che un giorno di inizio primavera decida di tornare seriamente a correre su strada e che aprendo il mio armadio cominci a cercare il vecchio, dimenticato paio di scarpe 'da ginnastica'. Di tutto quello che il mercato ci ha imposto e che io da vittima ho comprato, sono riuscita soltanto a ritrovare il mio paio di New Balance 572 di camoscio blu con la 'N' rosso fluo, che vagamente ricordano qualcosa con cui correre e che vengono classificate come scarpe da 'running'.

Risultato: dopo un mese di corsa più o meno assidua, con la caviglia e il ginocchio destro dolenti, decido che mi resta solo da 'correre ai ripari'. Acquisto una copia di 'Runner's world' e trovo un indirizzo magico. Un negozio di Milano, non lontano dalla stadio di San Siro, vende solo scarpe da runners. Ieri pomeriggio ero già lì, pronta per un acquisto salvapiedi e salvaschiena per i miei allenamenti: Mizuno Wave Rider 13.

Se soltano qualche anno fa, il nipote del signor Rihachi Mizuno, fondatore dell'omonima azienda giapponese in vita dal 1906 e situata ad Osaka, in qualità di attuale presidente del marchio mi avesse proposto una sua scarpa, gli avrei riso in faccia. Mi sarei ricordata dell'obbrobio di maglietta Mizuno, che nel 1992 indossava Ivan Lendl insieme alle scarpe, che lo avrebbero reso testimonial di questo brand fino alla fine della sua carriera. Al massimo gli avrei chiesto se fosse esistita una sneaker tra i loro prodotti, ma mi chiedo se qualcuno ne abbia mai vista o comprata una, dato che questo nome è legato ad alcuni dei modelli migliori (se non i) di scarpe da running. Quasi brutte da abbinare ad un paio di jeans, ma meravigliosamente comode per correre i miei primi 7 chilometri e 400 metri in 45 minuti.

Se prima correvo sulla terra, adesso mi chiedo come mai mi sembri di correre nell'aria.

sabato 16 aprile 2011

Di tante passioni, ovvero come non averne alcuna

Una scatola a forma di bambola e dentro un'idea, un'immagine, un pensiero, un fatto.
La Russia che mi è fatale ed ispira la mia esistenza, il Giappone con la sua faccia da manga che trasforma tutto in un videogame, i libri in cui ritrovo le mie parole, la musica che mi insegue come un destino, la fotografia che parla con gli occhi di chi ci guarda o viene da noi guardato, il prossimo viaggio che farò in un paese che non esiste sulle cartine geografiche, lingue straniere che popolano i miei giorni, il surf nonostante la paura degli squali, il tennis che ha fatto di me ciò che io sono, gli aeroporti nel mondo e il loro odore, la poesia e la proesia, l'amore distrutto e il tempo ritrovato, gli orologi dei paesi che hanno (e non) cambiato nome, i piccoli omini verdi e la cucina giapponese, i runner's high, gli anni 80 e i 90 e...

Insomma...tante passioni, ma se prima non le scrivo o non le scriverò, non saranno esistite e non ne avrò avute.

Digito ergo sum