MATRIOSKla

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sabato 31 marzo 2012

Maverick's - l'incubo

Quando ho cominciato ad appassionarmi al surf, ho scoperto attraverso documentari e film, tutti i principali break e spot della terra. Sono tre i punti focali attorno ai quali ruotano i grandi contest di surfers professionisti: Hawaii, California e Tahiti. Altri godono di altrettanta ottima fama come luoghi da sogno per ogni surfista, come Bali, Australia e varie isole dell'Indonesia.
Se soltanto i nomi di questi posti evocano il paradiso, ce n'è uno che invece è l'inferno del surf: Maverick. Si tratta di una località situata nella baia di Half Moon a 25 km da San Francisco. Questo break è diventato famoso negli anni 90, anche se la storia dice che un gruppo di surfisti del posto iniziò a surfare in questa zona nel 1961. Si dice anche che il nome Maverick era quello di un cane pastore tedesco dal pelo bianco che seguì il gruppo in acqua. Ma in realtà fu il dicottenne Jeff Clark, che nel 1975 cominciò a cavalcare le gigante onde di Maverick. Con temperature dell'acqua che, in inverno scendono fino ai dieci gradi e onde che arrivano fino a dodici metri, un anno sì e uno no, Clark imparò a fare surf nell'inferno delle gelide e pericolosissime acque scure di questa parte della California del nord. Fu proprio negli anni 90 che Clark fece conoscere a tutti i surfisti di Santa Cruz e di San Francisco questo spot e sebbene lui fosse un 'goofy-foot', cioè una sorta di nostro mancino di piede, imparò a domare le onde diventando un regular-foot, cioè un destrorso, per poter dominare il break di Maverick. Fu così che per la prima volta nel 1992 la rivista 'Surfer' dedicò un servizio a questo spot. 
Purtroppo, molte altre testate giornalistiche come il 'New York Times', 'Rolling Stone', 'Spin' dedicarono interi articoli ad un evento che vide la morte del poco più che trentenne surfista hawaiiano Mark Foo.
Foo, aveva accettato l'invito di Clark ad entrare nelle acque di Maverick. Quel giorno però le onde furono particolarmente impietose e tutto andò storto. Clark dichiarò che Maverick stava a significare che, per quanto si fosse preparati a surfare nelle condizioni più estreme, bisogna sempre ricordare che ci si trovava nel territorio del grande dio Nettuno.
La pericolosità di Maverick e la sua fama di inferno del surf stanno nelle estreme condizioni in cui i surfisti si ritrovano. Per prima cosa, data la violenza esplosiva delle onde, è pressocchè impossibile riuscire a rimanere in acqua per più di 50 secondi mettendo insieme tutte le varie sessioni effettuate con il tow-in, cioè con il traino del surfista attraverso le moto ad acqua. In secondo luogo la natura di questo spot è tristemente nota per le sue acque infestate dal grande squalo bianco, cioè lo squalo più aggressivo che possa capitare di incontrare e, infine, le acque gelide e scure nascondono un reef insidioso costituito da giganteschi banchi di scogli dalle punte taglienti, come se si trattasse di un labirinto sotterraneo dal quale sarebbe difficile uscire vivi, nella sfortuna di rimanervi incastrati. Si pensa che proprio questo sia la causa principale degli incidenti mrotali avvenuti in questo inferno. 
Certo, l'adrenalina e la sfida alla potenza del mare muovono nel surfista estremo il senso di sfida, ma Maverick rimane un luogo destinato davvero a pochissimi surfisti. Per quanto mi riguarda, solo l'idea di mettere piede in quell'acqua scura e infestata di squali mi terrorizza, sarebbe molto bello ammirare le gesta di questi folli surfisti attratti dall'inferno.

venerdì 30 marzo 2012

Deejay chiama Italia

Sono rimasta con questo pensiero in mente tutto il giorno...più che un post, per una volta vorrei soltanto dare un po' di sfogo alla mia indignazione  nei confronti di una delle cose che più detesto al mondo, cioè le ingiustizie, i soprusi, la prepotenza, la sleale sopraffazione del debole da parte del forte.
Stamattina, come tutti i venerdì da un po' di tempo a questa parte, ero sintonizzata sul programma Deejay chiama Italia della omonima radio. Quando sono a casa mi capita di vedere la diretta video.
L'unico motivo per cui guardo questo programma è la partecipazione di Aldo Rock, perchè la coppia Linus-Savino è davvero insopportabile.
Prima cosa, Linus avrà passato ormai, a occhi e croce, i 50 ( e non vado nemmeno a googolare la sua età, per quel poco che mi importa) e ancora crede di poter usare un linguaggio da adolescente in una radio, che a suo dire, vanta trentanni di successi. Vive di luoghi comuni e di dicerie, sarebbe degno di fare quello che un tempo faceva suo fratello Albertino e che forse ancora fa (non vado a googolare nemmeno questo), cioè intrattenere dei brufolosi studenti, appena tornati da scuola, che invece di studiare, sfogano i propri ormoni con la musica 'unz'. Insomma, un personaggio arrogante e davvero sgradevole.
Seconda cosa, Savino, un 'poverino' sottomesso, che arriva con il suo pelo nero e dritto tutte le mattine, per la paura che ha del suo 'capo-spalla'. Gli manca soltanto la coda dritta di un gatto terrorizzato da un cane e per il resto è soltanto il festival dell'ovvietà.
Terzo, non capisco tutta quella tensione che hanno addosso, quando il regista Alex Garolfi segnala che manca un minuto alla messa in onda. Ma di cosa ha paura Linus? Che se non sentiamo per tre secondi la sua voce,  dopo la canzone, possiamo sentirne la mancanza? Meglio sentire la canzone fino in fondo, piuttosto!
Ultimo e più pregnante dato, Aldo Rock è una persona genuina, sana, innocua. Distribuisce sorrisi, conoscenza, umanità a tutti e se ne frega delle critiche che i due succitati gli muovono costantemente durante i suoi interventi. Se Linus non è mai contento, perchè lo invita, mi chiedo? Lui è il dio sulla terra, come può sbagliare ogni venerdì ed essere sempre contrariato?!
Com'è scortese! Com'è maleducato con le sue parolacce nei confronti del povero Aldo! Mi ricorda tanto quella frustrata della mia ex capa che doveva fare sempre le sue pisciatine in giro (scusate il francesismo) per delimitare il suo territorio e aveva sempre un'imprecazione per tutti. Certa gente dovrebbe guardarsi in faccia un giorno e pensare che il mondo senza di loro tra le palle, sarebbe davvero un posto migliore.
Per il resto, caro Aldo Rock, fosse anche per una sola persona, continua ad allietare gli animi del tuo pubblico e pensa che la tua voce sommessa e la grinta delle tue parole sono come una giornata di sole, nel grigio di una Milano oppressa da servi di un invisibile e fasullo padrone.

Billabong

Il marchio Billabong mi piace da anni, ormai. Mi hanno regalato e mi sono comprata di tutto: magliette, camicie, cappellini, borse, portafogli. Se esistesse una macchina Billabong me la comprerei...
Mi piace lo stile di questa etichetta perchè mi fa tornare alla mente il surf e anche perchè il nome che hanno scelto di darle, ha un legame strettissimo con il suo paese d'origine, cioè l'Australia.
Infatti la parola significa, secondo antichissime origini scozzesi importate dagli immigrati, 'piccolo laghetto'. Di solito si tratta di un meandro di un fiume deviato dal corso principale e nascosto in una zona palustre, colma di acqua stagnata. Il billabong è dunque un piccolo specchio d'acqua dimenticata, tipica del suolo australiano.
L'azienda Billabong nasce nel 1973 per volontà di un ex costruttore di tavole da surf di nome Gordon Merchant, che ha trasformato in poco più di trentanni questo divertente e colorato marchio, originario del Queensland, in uno dei più conosciuti e prestigiosi nell'ambiente dell'abbigliamento sportivo. Billabong produce capi di vestiario per surf, skate e snowboard ed è diventata un'alternativa un po' più hip, rispetto ad aziende apparentemente più serie e tecniche come Quicksilver o Burton. Non che queste ultime non mi piacciano, ma Billabong ha qualcosa di più scanzonato e giovanile. I suoi testimonial di eccellenza sono stati e sono ad oggi grandi campioni dello sport e in particolare del surf come Mark Occhilupo, Shane Dorian, Keala Kennely, Joel Parkinson e Taj Burrow. Billabong , negli anni, è diventata anche un grande nome che ha sponsorizzato competizioni nel circuito professionistico di surf soprattutto il Billabong Pro alle Hawaii e ha prodotto vari film sul surf. Nel 1999 Billabong ha fatto discutere i media quando il presidente californiano Bob Harley ha dato le dimissioni e ha creato la sua propria label di abbigliamento sportivo, ora acquistata dalla Nike e che, da tempo ormai, è una delle accanite concorrenti del settore.
Alla fine di quell'anno Billabong ha ceduto quasi la metà delle sue azioni alla compagnia aerea australiana Qantas e ha nel 2000 ha strabiliato tutti per le sue vendite duplicate, ma anche per i prezzi notevolmente rincarati.
Quello che mi piace di Billabong non è solo il suo stile e la sua moda, ma anche la sua filosofia di vendita, che non ha mai permesso l'entrata dei suoi prodotti nei comuni centri commerciali, ma ha mantenuto una costante originale di concezione per cui il marchio si debba vendere in zone o aree che mantengano la sua credibilità di prodotto 'da spiaggia'. Nonostante abbia questa sua interna legge di mercato, molti prodotti, anche se in piccole quantità, si trovano in vari negozi sparsi per oltre 60 paesi nel mondo.

The very best of Smooth Jazz Guitar

Per chi ama il suono della chitarra, per chi vuole farsi rasserenare da soffici ritmi jazz e bossa, per chi ama fiammanti chitarre rosse e jumbo come quelle della splendida immagine di copertina, esiste un disco che raccoglie 12 canzoni di Norman Brown, Ronnie Jordan, Larry Carlton, Chuck Loeb e altri grandi maestri del modern e free jazz.
Le canzoni, selezionate da esperti intenditori della casa discografica Shanachie, sono opere di composizione, interpretazione e arrangiamenti di artisti che attirano migliaia di fans nel mondo e che hanno raccolto successi a livello mondiale negli ultimi anni. Ritmi groove, brasiliani, latino americani, ma anche semplicemente jazz adornano questo piccolo gioiello di musica da gustare, ad esempio, in una splendida mattina di sole. Alcuni brani mi hanno ricordato il disco 'Reptile' di Eric Clapton,  a sua volta ricco di influenze bossa e free jazz, oltre che di blues e mi hanno evocato le stesse sensazioni di relax e di libertà. D'altronde il jazz è puro e libero come una bella sessione di corsa per rilassare la mente e il corpo, oppure è pigro e sonnolento come una giornata di vacanza e meglio ancora geniale e improvviso come un giorno di primavera.

giovedì 29 marzo 2012

Peter Gabriel - Live in Buenos Aires

Comprare un disco originale, aprirlo e trovare la storia del disco, le fotografie dei cantanti e dei musicisti, ancor meglio se si possono leggere i testi delle canzoni. Poi mettere il disco nel lettore cd e che tu sia seduto su un divano, ad una scrivania, su un aereo o in una macchina, sentire le urla di un pubblico in uno stadio, magari un grande stadio come il River Plate, e sentirsi a Buenos Aires...laddove Peter Gabriel ha suonato 8 strepitose e famosissime canzoni dal vivo il 15 ottobre del 1988. Parlo di canzoni come 'Red rain', 'Games without frontier' e 'Shock the monkey', parlo della carica anni 80 di 'Sledghammer'.
Ma soprattutto parlo del brivido di quando alla traccia cinque, al minuto e cinquantuno secondi ti entra nel petto la profonda voce dal vivo di una Tracy Chapman giovanissima, con il volto e le corde vocali ancora pulitissimi, forse all'apice della sua popolarità e la ruvida voce di Gabriel la accompagna. Ti senti laggiù, in un paese lontano, dove sta per iniziare l'estate mentre da noi è inverno e senti il calore del sud del mondo.
Ecco cosa mi suscita l'ascolto di questo disco, che quasi sembra essere diventato una rarità.
A chiudere questo concerto memorabile, una canzone che sembra una preghiera o forse un inno 'Biko'. Le parole recitate in spagnolo da Gabriel prima della canzone, le urla che sembrano uscire da una foresta tropicale, che sembrano arrivare via oceano dal Sud Africa, mi ricordano le gesta coraggiose e simboliche di un mito degli anni 80 e 90 come Nelson Mandela, mi evocano nella mente i cieli immensi del continente nero, dove l'effetto live della voce pare l'unica cosa che possa spezzare, nel bene e nel male, quell'immobile realtà degli oppressi e le vastità della natura.

martedì 27 marzo 2012

Haruki Murakami and the music of words - J. Rubin

Scritto da Jay Rubin, 'Haruki Murakami and the music of words' è un illuminante saggio prodotto da un autore che è stato ed è tuttora il principale traduttore delle opere di Murakami in inglese, per il pubblico americano.
Consiglio questo libro, di cui esiste solo la versione in inglese per il momento, a tutti i fans di Murakami che vogliano sapere di più riguardo a questo autore così schivo e riservato. Rubin rivela interessante elementi biografici e aneddoti della vita privata di Murakami, spiega come egli abbia inventato un genere e uno stile mai visto prima nella storia della letteratura giapponese. Nel libro si ritrovano brani presi da interviste condotte da Rubin al suo idolo letterario attraverso collaborazioni che sono durate dal 1993 al 2001.
Mi sono gustata e centellinata ogni pagina di questo saggio, dal quale si deducono interpretazioni e analisi delle opere dell'autore giapponese, ma si apprendono anche piccole curiosità biografiche e divertenti situazioni, si capisce come mai Murakami abbia vissuto così tanto all'estero, quali siano stati i suoi rapporti con il pubblico e gli studenti che di lui hanno scritto e studiato e soprattutto si ha un'ampia e panoramica visione della musica, non solo citata dai romanzi stessi, ma anche di quella che emana dalle parole e dalla seducente prosa che da anni ormai costituisce il successo concreto di Murakami scrittore.
Un libro dal quale si possono attingere anche tecniche e strategie di scrittura, che lo stesso Murakami spiega e  svela attraverso le sue stesse parole.

sabato 24 marzo 2012

Le buffe camicie hawaiiane

Certamente il più famoso testimonial delle camicie hawaiiane, qui da noi, è stato l'affascinante Tom Selleck nella serie Magnum P.I. Dopo aver visto la sua vera camicia, donata al museo dell'arte pop a Washington, mi sono documentata sulle origini di questa esilarante moda dei fiorelloni. Ovviamente c'è tutta a storia da scoprire. Le prime camicie hawaiiane furono ideate dai nativi hawaiiani all'inizio dello scorso secolo, quando dipingevano a mano, su materiali importati da lavoratori cinesi, motivi e disegni che riproducevano elementi delle loro isole. Nel 1931 però, un sarto hawaiiano di nome Ellery Chun cominciò a mettere insieme questi motivi tipici su camicie di seta. Cinque anni più tardi un'azienda di Honolulu, il Kamehameha Garment, portò sul mercato quest'indumento per la prima volta e lo chiamò 'aloha shirt'. Diventò immediatamente un capo di moda estremamente fashion, qualcosa che gli americani del continente dovevano per forza avere. I disegni più popolari furono le famose ballerine di hula, le palme, i surfisti, i fiori, le ananas, pesci tropicali, le collane di fiori e l'ukulele.
Molte celebrità aiutarono a rendere sempre più popolare la camicia e il suo stile, tra cui Elvis Presley, Bing Cosby, Frank Sinatra e persino il presidente Harry Truman negli anni 50. Infine, anche i surfisti californiani prima di della seconda guerra mondiale erano entusiasti di portare la famosa camicia e desiderosi di esportare nel continente un po' della nativa cultura hawaiiana. Il declino delle camicie si ebbe quando alla metà degli anni 50, il materiale utilizzato fu essenzialmente il poliestere. Negli anni 60 e 70 la camicia fu destinata a rimanere chiusa negli armadi degli americani, poichè giudicata terribilmente fuori moda e dunque si poteva trovare soltanto ai mercati dell'usato. Finchè negli anni 80 e 90 tornò ad essere un oggetto di moda e si trasformò oggetto di culto. Sorsero nuovamente negozi specializzati nell'indumento e si scrissero libri sulla moda della camicia a fiori. Il governatore delle Hawaii Ben Cayean dichiarò il 2000, l'anno della camicia 'aloha' in onore del sarto Ellery Chun che morì proprio quell'anno all'età di 91 anni.
Per noi europei la camicia hawaiiana è sempre stata un simbolo di quelle isole, in primis, e del tipico americano in vacanza fuori dal continente. A memoria, ricordo che gli anni 80 sono stati gli anni in cui, qui da noi, esplose la mania e ricordo non solo le camicie, ma anche i pantaloni e gli abiti da donna che si rifacevano a quel design così sgargiante e così caratteristico, di cui tutto si può dire meno che non abbia segnato un'epoca e forse anche più di una.

venerdì 23 marzo 2012

Il cielo a primavera

La fotografia che ho in mente in questi primi giorni di primavera è quella dei cieli incerti, bassi, scuri, grigi. Ma quel grigio non è lo stesso delle cupe giornate di nebbia, di freddo e di smog. Piuttosto quel grigio mi pare che nasconda sempre un altro colore, quello riflesso dalla natura circostante di un paese tropicale o asiatico, quello che porterà una tempesta, una pioggia ristoratrice o un uragano estivo e poi porterà l'arcobaleno. 



mercoledì 21 marzo 2012

I primi 8 minuti

Ieri sera ho letto qualche pagina di un libro molto interessante sul mio idolo letterario Haruki Murakami e mi ha fatto specie trovare quest'affermazione dell'autore: 'penso sempre che la giornata sia composta da 23 ore'.
Il motivo è molto semplice, diventando uno scrittore e dunque dovendo fare un lavoro sedentario Murakami decise fin dai suoi esordi letterari di dover cambiare stile di vita. Era un fumatore, 3 pacchetti al giorno e aveva una certa predisposizione alla pinguedine. Dunque, dopo aver smesso di lavorare nel suo locale jazz Peter Cat, dove si alzava tardi al mattino e andava a dormire quasi all'alba, si mise in testa di cambiare il suo ritmo circadiano e di invertire tutte le sue cattive abitudine. Smise di fumare, cominciò a correre almeno un'ora al giorno e ad alzarsi alle 4 per poter allenarsi prima di iniziare a scrivere.
Quell'ora delle 24 che costituiscono un giorno doveva, da quel momento, essere dedicata soltanto all'esercizio fisico e dunque al suo jogging mattiniero. A quel tempo Murakami aveva 32 anni e da allora non ha mai smesso di correre, sempre al mattino, sempre alla stessa ora.
Onore al merito. Sì. perchè penso che per alzarsi al mattino e come prima cosa correre sia davvero necessaria una enorme forza di volontà. Io la corsa la vedo come un premio per la mia giornata lavorativa e non come uno sforzo erculeo al quale sottoporre un povero corpicino ancora caldo del letto.
In questi giorni, per motivi di comodità di orari, ho provato a invertire anch'io le mie abitudini. Ho corso al mattino, ma assolutamente non presto e ho usufruito un po' delle mie runner's high durante il resto della giornata. E' bello uscire al mattino con il sole già alto e non troppo caldo, soprattutto durante queste prime giornate di primavera, ma io rimango una che potrebbe correre per sempre di sera e anche di notte. Sono una nottambula. Poi, c'è la questione 'primi 8 minuti'. Sono tremendi, sono i peggiori di tutto un allenamento e superato quel piccolo muro, per me che al massimo corro 45 minuti alla volta, mi sento finalmente le forze in circolo. Di mattina quegli 8 minuti sono ancora più duri: il fiato scarseggia, la luce abbaglia, la pressione sanguigna è ancora scarsa. Sono sempre 8, ma sono comunque più duri di quelli che di solito devo superare di sera. Non c'è una regola, ognuno sceglie quando correre e ha un orario più consono ad abitudini e resistenza fisica. Ognuno sceglie come superare quei primi 8 minuti, forse per alcuni sono di più o per alcuni sono gli ultimi 8. Per me, di sera, sono i minuti della noia e al mattino quelli della fatica. Per gente determinata come Murakami, forse non esistono o forse non sono nemmeno contemplati...Ma comunque, la musica è sempre la stessa, basta continuare a correre.

giovedì 15 marzo 2012

Welcome to the NHK - light novel

Ho già parlato di questo argomento, precisamente dell'anime 'Welcome to the NHK'. Ma come avevo già scritto in un precedente post, esiste un libro, ovviamente omonimo, da dove è stata tratta la storia dell'anime.
L'autore è Tashuiro Takimoto, che si dichiara hikikomori fin dalla prefazione e che dunque anticipa di aver vissuto sulla propria pelle alcune delle situazioni vissute da Sato, il protagonista del romanzo.
Ma, poichè ho già scritto della storia, volevo tornare sull'argomento differenze/similitudini tra quello che ho visto su video e quello che ho letto. Mi ha colpito una cosa in particolare, nell'anime non si parla della dipendenza da droghe e allucinogeni di cui fa uso Sato e sono inventati, di sana pianta, due episodi molto importanti. Uno è quello dell'incontro con la Sempai, che porterà Sato sull'isola del suicidio di massa e l'altro è la storia dell'ex compagna di classe di Sato, che vive di debiti e di vendite per corrispondenze e che nasconde una vita e un fratello falliti. Insomma, il romanzo era probabilmente soltanto una traccia, uno spunto, per raccontare su video ulteriori fallimenti e variegate situazioni di hikikomori vissute e percepite da altre prospettive e altri esseri umani. Forse un modo per far capire come, in Giappone, questo fenomeno sia ben più diffuso e allargato anche su fasce d'età ed estrazioni sociali diverse.
Il libro, confronto all'anime, è decisamente più negativo e deprimente. Talvolta rasenta la follia e forse risulta un pochino più sbrigativo, rispetto all'adattamento su schermo. Nel complesso ho trovato interessante approfondire  gli argomenti NHK, hikikomori e 'grande cospirazione' anche attraverso la lettura.

mercoledì 14 marzo 2012

Hawaii - A Perfect Gataway

Se volete vedere il paradiso segreto dell'isola più selvaggia delle Hawaii, cioè Kauai, una buona occasione potrebbe essere quella di guardare il film di David Twohy del 2009 'A Perfect Gateway'.
Si tratta di un thriller psicologico, che tiene l'attenzione dato il mistero da scoprire e perchè come tutti i thriller, d'altronde, una volta iniziato si vuole arrivare fino in fondo a vedere chi è l'assassino.
Sì perchè la storia è quella di una coppia di sposi perseguitata da un'altra coppia killer, di cui non si conosce l'identità. Ma qui l'originalità sta nel capire chi veramente stia inseguendo chi. Un buon gioco di specchi e una certa dose di introspezione psicologica salvano la storia, un cast mediocre a parte la presenza dell'algida e affascinante Milla Jovovich, ma soprattutto degli scenari e dei paesaggi mozza fiato, salvano il film. 
Personalmente mi sono concentrata di più sulle bellezze del posto: la giovane e folta vegetazione indomata, i colori iper di un oceano quasi in fiamme, tanta è la forza che si sprigiona dalle inquadrature delle onde, l'interno dell'isola selvaggio e imprevedibile, avvolto da quella nebbiosa atmosfera tropicale di pioggia e arcobaleni, le scogliere dipinte di ogni sfumatura del verde e l'immancabile, maestosa e suggestionante Napali Coast, che ricorda sempre di più un volto segnato dalle lame di un machete.
Un film da vedere per scappare, per un paio d'ore, dalla realtà...un po' come dice il titolo, una perfetta via di fuga.

martedì 13 marzo 2012

Musical box. Le canzoni dei Genesis dalla A alla Z - M. Giammetti

Una delle cose che più mi incuriosiscono delle canzoni è quella di sapere da dove e in che modo nascano.
Sarebbe bello essere proprio lì, al principio della creazione, spiare il momento dell'ispirazione, entrare nella mente di chi scrive una canzone che poi, una volta finita, sarà ascoltata e discussa dal resto del mondo.
Insomma, mi sono sempre chiesta, che cosa vogliano dire certe canzoni, perchè siano state scritte, se siano frutto  di una gioia, di un dolore o di una pura casualità.
Questa curiosità si amplifica, se penso alle canzoni dei cantanti che più mi piacciono.
Prendiamo una band come i Genesis, per esempio. Se andiamo indietro fino agli albori della loro nascita, scoprire che cosa volessero dire le liriche progressive di quando Peter Gabriel era uno dei compositori delle loro canzoni, potrebbe essere come studiare dei manuali di storia o di mitologia. Penso agli album come 'From Genesis to revelation' o 'Trespass', sono così ermetici e lontani dai nostri tempi, che ci vuole davvero un manuale per poterli capire.
Allo stesso modo, anche nell'era più pop in cui le composizioni sono intrise della vena romantico-amorosa di Phil Collins, è stupendo essere illuminati su tutti i retroscena, gli aneddoti, le sfortune e le fortune della composizione sia lirica, sia musicale.
Attraverso il libro di uno dei più grandi esperti italiani dei Genesis, come Mario Giammetti, si può proprio avvicinarsi alla scoperta e alle rivelazioni della storia di grandissime canzoni come 'Land of confusion', che nasce dal disagio provato dalla società contemporanea del tempo e che era intrisa di echi di Guerra Fredda, per esempio. Oppure, è stato molto commovente sapere che una delle canzoni più romantiche dell'album 'We can't dance', cioè 'Since I lost you', è in realtà una canzone piena di dolore, dedicata alla tragica morte del figlio di Eric Clapton, di cui Phil Collins venne a sapere dallo stesso Clapton, mentre si stava ancora formando la canzone. 
'Musical Box. Le canzoni dei Genesis dalla A alla Z' è una vera e propria scatola enciclopedica di tutta la discografia dei Genesis finora conosciuta. In ordine alfabetico si possono consultare le canzoni e averne una descrizione dettagliatissima, dall'uso degli strumenti, alla composizione e ovviamente fino alla 'genesi' stessa delle meravigliose liriche prodotte da questa storica band. 

lunedì 12 marzo 2012

Onigiri, panini di riso alla giapponese

Inutile dire che chiunque sia nato almeno negli anni 70 ha sicuramente visto, almeno una volta, un cartone animato giapponese. Se questo vi è capitato, allora vi è capitato di vedere anche uno dei personaggi mangiare qualcosa. Quasi sempre, nei cartoni, si vedono o i classici ramen in scodella, oppure delle strane e bianche pallottole giganti di riso avvolte da una strisciolina nera.
Proprio di queste vorrei parlarvi, dato che finalmente sono anche riuscita a mangiarne di vere, ovviamente al mio ristorante giapponese preferito. 
Quando abbiamo voglia di uno spuntino qui da noi si mangia un panino con qualcosa di veloce dentro. Di solito i panini saziano perchè il pane riempie bene la pancia. Allo stesso modo succede con gli Onigiri. Altro non sono che panini alla maniera giapponese. Solitamente sono delle polpette di riso ovali o triangolari, avvolte da alga commestibile detta nori, che era proprio la strisciolina nera dei cartoni animati, che serve a dare alla polpetta una maggiore consistenza.
Di solito gli Onigiri (che in giapponese significa anche 'taglio dell'orso') sono preparati con un riso diverso da quello con il quale si prepara il sushi. In quest'ultimo, infatti, si aggiunge l'aceto apposta per il riso, mentre per gli Onigiri il riso è semplice. Dentro si trovano quasi sempre farciture di salmone, oppure di  umeboshi, prugne secche di origine giapponese. La farcitura costituisce un vero e proprio cuore della polpetta. Insieme a questo, per dare maggiore sapore, si aggiungono semi di sesamo o altri ingredienti salati che mantengono la freschezza del riso.
Come la maggior parte del cibo giapponese, si possono acquistare preconfezionati nei supermercati e nei distributori automatici hanbaiki. Anche se vengono considerati come piccoli snack, sono anche concepiti come veri e propri pasti e dunque sono serviti anche nei ristoranti. L'origine dell'Onigiri si perde fin prima dell'era Nara, poco prima che furono introdotte le bacchette. Anche all'epoca era considerato cibo da portare per le escursioni o gli spostamenti fuori porta. Nell'era dei samurai, venivano avvolti in foglie di bambù. Oggi sono confezionati in soffice e deliziosa carta velina alimentare.
Ci sono voluti molti anni, c'è voluto lo scoppio della mania del sushi e compagnia bella, per capire che cosa fossero quelle giganti e succulente polpette bianche e nere inspiegabili agli occhi di noi ragazzini degli anni 70, cresciuti nel mito dei cartoni animati giapponesi.
La cosa buffa di oggi, invece, è che si può guardare un anime da un computer a qualsiasi ora del giorno e gustare insieme ai personaggi i famosi Onigiri davanti allo schermo. Sotto questo punto di vista, tutti questi anni e tutto questo progresso, almeno, non sono passati invano.

giovedì 8 marzo 2012

Headphonesmania

 Tra le mie varie fissazioni, di sicuro, ci metterei quelle per le cuffie per ascoltare la musica.
Ricordo che, già ai tempi in cui andavo in giro ascoltando il Sony Walkman e tutti i suoi derivati, mi piaceva isolarmi con le cuffie nelle orecchie. Anche la radio per ascoltare e doppiare le cassette stereo, che tanto andavano di moda, mi piaceva perchè aveva un jack nel quale infilare le cuffie e sentire la musica, senza che gli altri potessero sapere che cosa ascoltassi. Ma soprattutto mi davano una sensazione di libertà perchè si poteva alzare il volume a proprio piacimento senza disturbare nessuno. 
Nella mia lunga 'carriera' di ascoltatrice di musica, le prime cuffie sono state un paio di Aiwa, che non credo esista più in giro. Erano grigie con i padiglioni di spugnetta arancione e si potevano piegare in due. Penso che se il mio gatto non si fosse rosicchiato i padiglioni di spugna, adesso sarebbero davvero un bel pezzo d'oggetto anni 80. Anche se nella foto qui a fianco sono nere, erano più o meno così. 

Nella mia collezione di cuffie, ho comprato innumerevoli auricolari di marca e non, che a seconda del prezzo si sono rotti o hanno avuto una loro decorosa vita. Quasi sempre, quelli di marca erano le immancabili Aiwa o Sony.
Ma la vera mania mi è scoppiata qualche anno, quando in occasione del mio viaggio in Giappone, in uno dei tanti megastore di Osaka trovai delle cuffie davvero spaziali. Si trattava, ancora una volta, di un paio di Sony che dentro la scatola sembravano quasi un paio di occhiali. La particolarità di questo modello è che hanno i  ganci per rimanere appese dietro le orecchie, la spugna nera da appoggiare al padiglione auricolare e soprattutto che attraverso dei bottoncini si può regolare la lunghezza del filo tra i due padiglioni e anche tra loro e l'ipod o qualsiasi cosa siano attaccate. Finito l'ascolto si possono riavvolgere tutti i fili e non averli in giro o attorcigliati dappertutto. Sono ottime nella qualità del suono e super comode per la compattezza. Ne ho comprate due paia: blu e rosse. 
Sempre in Giappone, ho comprato un altro modello Sony molto particolare. Si tratta di un paio di padiglioni il cui colore si può cambiare perchè esistono delle mascherine che si montano e rimontano a seconda di quale colore si voglia. Si agganciano dietro le orecchie e hanno il filo del jack particolarmente corto, così che si possa maneggiare l'ipod, o altro, molto agevolmente e che si possa infilarlo nella prima tasca più vicina a noi. Anche in questo caso la qualità è ottima. Inoltre il filo che tiene insieme le cuffie è anatomico e ha già la forma adattata a passare dietro al collo.
Ma c'è un altro paio di cuffie, questa volta AKG, del quale sono entrata in possesso casualmente, poichè mi è stato regalato, che ha anche qualcosa in più. Il modello è il classico della cuffia con cerchietto e design simile a quello degli anni 80, ma è decisamente leggero, i padiglioni sono rivestiti in soffice plastica, che hanno il controllo del volume sul filo. Dunque sono comode da maneggiare e molto più qualitative di altre, perchè il volume può essere potenziato con il volume controller.
Ovviamente, non possono mancare i classici auricolari bianchi della Apple, che sono arrivati insieme all'Ipod. Rimangono le migliori per correre, anche se a lungo andare purtroppo il sudore rovina i gommini da infilare nelle orecchie. 
Da poco, alla mia collezione si è aggiunto un nuovo pezzo. Acquistato direttamente dall'America, si tratta di un modello di cuffie Wesc, anche nota come marca di vestiti, il cui acronimo significa WeAretheSuperlativeCospiracy. Arrivano dal design di concezione svedese e sono più un oggetto fashion che un vero e proprio paio di cuffie. Non raggiungono qualità eccezionali, come può fare una marca di settore specializzata e professionista come la AKG, ma hanno comunque una buona resa di suono. Della Wesc esistono svariati modelli, uno più bello dell'altro da un punto di vista estetico. Io ho scelto il Bongo perchè mi piaceva molto il design. Ottime per il prossimo volo in aereo, per un totale isolamento da scocciatori e urla isteriche da viaggiatore.
La collezione è appena cominciata, dovrò solo trattenermi fino al prossimo acquisto.

mercoledì 7 marzo 2012

Duran Duran - Big Thing e le Bahamas

Bisogna sfatare questo mito che la musica degli anni 80 sia stata solo spazzatura. Bisogna smettere di credere che i Duran Duran e compagnia bella fossero solo dei pupazzi persi nei fasti della musica New Wave e nel tripudio fluorescente dei loro capelli, vestiti e unghie e che non siano mai stati capaci di mettere insieme delle note per comporre dischi di qualità.
Proibisco a chiunque di storcere il naso, se dico che questo disco è davvero un piccolo capolavoro.
E' vero, è arrivato sulla fase calante dell'era duraniana del decennio 1980. Il suo anno di pubblicazione, infatti, risale al 1988. Gli sprazzi più glamour del loro bruciante successo erano già esplosi e sopiti da tempo, gli eccessi dell'opulenza di quegli anni cominciavano a farsi sentire sui volti sia di Simon Le Bon, che di John e Nick.
La band non era più al completo da tempo, altri musicisti si erano aggiunti per la realizzazione del disco, tra cui anche il chitarrista Warren Cuccurullo.
Come sempre, quando cala l'interesse verso una band o in un cantante, è lì che viene fuori il massimo. 

Sono affettivamente legata a questo disco e, quindi, può darsi che il fatto che mi ricordi uno dei viaggi più belli della mia vita, possa costituirne un motivo di sopravvalutazione, ma sono certa che se ascolterete questo disco privi di ogni pregiudizio, alla fine sarete d'accordo con me. Ma, fatto strano di quel periodo è che, forse i Duran Duran sapevano che stavo per compiere il mio primo viaggio negli Stati Uniti proprio mentre alle radio suonavano questo disco. Non solo, sapevano anche che avrei avuto bisogno, per il mio inseparabile walkman, di una musica adatta all'entusiasmo che una ragazzina di 13 anni poteva portarsi dietro all'idea di mettere piede nella tanto sognata e decantata Florida di Disneyworld e delle sue spiagge assolate 12 mesi all'anno.
La prima parte del disco, infatti, sembra celebrare la musica e la gioia con pezzi come 'Big Thing', 'I don't want your love', 'All she wants is' e 'Drug (is just a state of mind)'. Tutte canzoni che per i loro ritmi frenetici per l'epoca, diventano delle canzoni molto dance e finiscono quasi tutte remixate, dritte in discoteca.
Erano ancora i tempi del lato A e B. Sul lato A, si trovavano canzoni movimentate, ma anche una delle più belle ballate dei Duran Duran 'Too late Marlene', che inutile dire, avrò ascoltato 5 o 6 milioni di volte. La voce di Simon si struggeva d'amore per questa sconosciuta Marlene e io mi struggevo d'amore per lui, da fan sfegatata che ero.
Il lato B cambiava decisamente tutti i presupposti e, per decidermi ad ascoltarlo, mi ci vollero sostanzialmente due condizioni. Una era l'aver ascoltato il lato A talmente tante volte da non poterne più e  l'altra era osservare, dal retro di una Suzuki jeep azzurra, il meraviglioso panorama delle isole Bahamas, che costituivano la seconda parte del mio viaggio americano.
Per via di strane alchimie della comunicazione telepatica, anche in questo caso, Simon Le Bon sapeva che prima o poi mi sarei diretta alle Bahamas, perchè, fatto è, che aveva scritto e cantato, sempre e solo per me, delle straordinarie canzoni come 'Do you believe in shame?', 'Palomino', 'Land' e dulcis in fundo 'The edge of America', che perfettamente si adattavano ai colori, i sapori e le atmosfere di quell'isola.
Mi ricordo di aver cantato a squarciagola 'The edge of America' nel mio personale inglese di ragazzina - quello cantato per i suoni della lingua e non per le parole vere e proprie - e di aver pensato che Simon era uno che vedeva davvero lungo, perchè aveva azzeccato che mi sarei trovata in quel caldo dicembre del 1989 proprio sull'orlo dell'America...  
Va bene, questa era una versione un po' romanzata della mia critica riguardo a questo disco. Ma, a distanza di 20 e più anni ho comprato, qualche tempo fa, il disco originale, poichè all'epoca avevo la classica cassetta registrata da una compagna di scuola. Il disco regge davvero il tempo, le canzoni sono ancora piacevoli, soprattutto quelle di quel paradisiaco lato B e non solo il tempo lo regge, ma lo rievoca nel mio caso, riportandomi ricordi lontani lontani e tropicali profumi...

martedì 6 marzo 2012

Beatles - Rubber Soul

Anche in questo caso, non dirò di certo nulla di nuovo, o che non sia stato già detto, sui magnifici quattro.
Ma, siccome la mia scoperta dei dischi più importanti dei Beatles continua, sono approdata al 1965, quando la band pubblica Rubber Soul. Dunque, dirò soltanto perchè questo disco, in questi ultimi giorni, è stato per me una piacevole riscoperta. Conoscevo già brani come Michelle, Girl, Norwegian Wood, Nowhere man, Drive my car. Ovviamente, nonostante l'usura di questi grandi successi, mi piacciono ancora molto.
Già si nota come la band aveva voluto deviare dal cammino puramente pop-adolescenziale e come si stesse incamminando su sentieri meno battuti, ma ricchi di qualità sonora ed espressiva. Non ci sono le solite canzoni d'amore, in questo disco. Ma altri temi, come i dubbi esistenziali, la gelosia, il sesso e soprattutto la nostalgia per la giovinezza. Il sound va verso approcci più folk e più rock e si ritrovano punte di sperimentazione e innovazione, ad esempio, con l'introduzione di strumenti esotici come il sitar indiano e i maracas.
Ma ciò che più mi piace di questo disco sono due cose: una è la fotografia scelta per la copertina. La distorsione dell'immagine si fonde perfettamente con i tempi acidi di quegli anni 60, che vedevano la psichedelia, l'obnubilazione della mente e l'estraneazione come elementi di esplorazione artistica. Anche la font usata per scrivere il titolo, privo del nome della band per la prima volta, ha un qualcosa a metà tra un effetto ologrammatico e una gigantesca bolla che sta per scoppiare. Insomma, la veste grafica oggi rievoca le atmosfere acide tipiche delle grandi band degli anni 60.
L'altra cosa che adoro di questo disco è che la canzone Norwegian Wood mi ricorda uno dei miei libri preferiti di Murakami. Probabilmente quando Murakami ha scelto di intitolare il suo maggior libro di successo con il nome di questa canzone, ha voluto indissolubilmente legarlo alla musica degli anni della sua giovinezza. Chi meglio dei Beatles avrebbe potuto ricordargli i fasti musicali degli anni 60?

lunedì 5 marzo 2012

Essere un balcone o una giraffa

L'altro giorno guardavo un video sui big 5 della savana. Nonostante la loro imperturbabile onnipotenza e l'inevitabile fascino che esercitano, mi sono soffermata su un animale così sobrio, elegante, silenzioso e apparentemente innocuo come la giraffa.
Allora mi sono messa a pensare a cosa pensano le giraffe quando guardano lontano, lontano...
Cosa penseranno di noi esseri così minuscoli? Cosa vedranno all'orizzonte di così interessante rispetto a noi?Magari un cielo più terso, uno spazio ancora più immenso. Sì forse quello che si vede dal balcone di un secondo piano d'altezza. Ma un conto è essere su un balcone, mi sono detta, e un conto è essere una specie di balcone semovente. Nel secondo caso l'intera prospettiva delle cose cambierebbe in proporzione a noi stessi.
Come tutte le cose o le persone molto alte, la giraffa mi appare poco agile e non molto coordinata, eppure proprio la grazia e la leggiadria di un animale così maestoso mi catturano più di altri: i loro occhi cigliuti, il manto chiazzato come un tappeto degli anni 70 o un disegno che pare si stia per crepare in più punti e ovviamente il lungo, poderoso collo. 
Per via di questa insolita bellezza oggi ho scelto di portarmi dietro mentalmente, come ormai da un po' di tempo a questa parte faccio, questa meravigliosa fotografia. Mi ricorda la plasticità sontuosa e imperante di una statua romana, mi ricorda che in giornate uggiose come queste, l'importante è continuare a correre...anche se poi quello era un altro animale...

venerdì 2 marzo 2012

Lucio Dalla che ricordi...

Non posso non scrivere niente, per salutare idealmente, uno dei pochi cantanti italiani che hanno fatto parte dei miei ascolti musicali più cari. Mio padre è sempre stato un grande estimatore di Lucio Dalla. Quand'ero piccola lo capivo poco, mi sembrava una scimmietta col cappellino e gli occhialetti. Non era esattamente elegante e attraente come Simon Le Bon, perchè gli anni in cui in casa mio padre faceva suonare i suoi dischi erano, più o meno, i metà anni 80. A forza di sentire le sue canzoni però mi avvicinai alla sua musica.
Quando si andava in gita alle medie, sul pullman si prendeva il canzoniere e si cantavano gli autori italiani. Lucio non poteva mancare con la sua Piazza Grande, L'Anno che verrà, 4 Marzo 1943. Erano i miei primi approcci alla storia della musica italiana contemporanea, la musica dei bellissimi anni 60 e oltre.
Nei primi anni 90, cominciai ad ascoltare meglio le sue canzoni e ad amarle.  Nello stereo di camera mia mettevo i dischi delle raccolte dei suoi più grandi successi: Come è profondo il mare, Disperato erotico stomp, Anna e Marco, Futura, Balla, balla, ballerino e tanti altri. Nel 1993 andammo a un concerto al teatro Smeraldo di Milano, con i miei genitori. Era una delle mie prime esperienze di concerto ed erano gli anni di Attenti al lupo, Apriti cuore, Denis, ma soprattutto di quel malinconico e amato disco che fu Henna, dove spiccavano canzoni che all'epoca facevano parlare, come Merdman, Latin Lover, Rispondimi.
Era un cantante-poeta, di sicuro la sua sensibilità e la sua poesia, la sua delicatezza d'animo erano tutte nascoste in quella straordinaria voce e quella sua liricità. Nessuno avrebbe, ad esempio, saputo scrivere una canzone più toccante di Ayrton, dedicata al grande pilota morto giovanissimo nella terra di Lucio.
Pochi sapevano essere buffi e romantici allo stesso tempo, forse questa era davvero la tenerezza che emanava da quel grande artista di cui non scorderò mai il cappellino, gli occhialini, le mani tozze e una voce sublime.
Lucio Dalla...dolci ricordi...

giovedì 1 marzo 2012

Tachiyomi o l'arte di leggere in piedi

Leggendo qui e là in rete, ho scoperto che una delle pratiche che più preferisco quando vado in edicola o in libreria, ha addirittura un nome. Si tratta di una parola giapponese 'Tachiyomi', che significa 'leggere in piedi'. Mi è capitato di entrare in una libreria a Osaka e di vedere svariati lettori 'lastminute', oppure otaku fermi in adorazione davanti alle ultime uscite manga, o ragazze perse nel loro mondo davanti ad una rivista di moda. Tutti rigorosamente in piedi e con l'ultimo numero di una pubblicazione editoriale appena uscita, magari non richiusa nell'involucro di plastica e con un prezzo di copertina anche fin troppo alto. Pare che in Giappone sia una pratica diffusa, soprattutto tra impiegati in giacca e cravatta e per di più, tollerata nei principali conbini (abbreviazione per convenience store).
Da noi, questo fenomeno non esiste in una maniera così diffusa e metodica. Per fortuna che adesso, almeno nelle grandi librerie, hanno pensato bene di mettere poltrona e divanetto per sedersi a leggere o consultare i volumi in tutta libertà. Ma mi è capitato spesso, e ancora accade che, se per caso prendo in mano una rivista in un'edicola-negozio, mi senta perforata dagli sguardi dei venditori. Insomma, mi sono sempre chiesta perchè in un negozio di vestiti o scarpe si possano misurare le cose prima di comprarle e in edicola non si possa dare una sfogliata e un'occhiata alla rivista, allo stesso modo.
Meno male che il Giappone è un paese che ha un forte senso dell'educazione e del rispetto.
Se capitasse lo stesso qui, ciò vorrebbe dire che si dovrebbe, con un po' di buon senso, tollerare anche una fruizione, versione 'fastfood' di giornali, libri e riviste, sia che si stia aspettando qualcuno, per puro intrattenimento, o che si cerchi di ammazzare il tempo prima di prendere il treno. Prima o poi ci arriveremo anche noi.