MATRIOSKla

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mercoledì 30 novembre 2011

Mazzantini M. - Venuto al mondo

Mi chiedo come Margaret Mazzantini abbia potuto scrivere un libro del genere.
Intendo, voleva proprio farci del male quasi fisico nel raccontare questa storia. Ogni pagina è ruvida e deturpante come una granata, sanguina dolore e tristezza proprio come accade quando si pensa ad una guerra, provoca rabbia e rancore, di quello che probabilmente provano donne alle quali non è dato poter essere madri.
La storia è piuttosto banale, scontata. Ma c'è qualcosa che mi fa salvare questo libro. L'ho trovato pesante, prolisso, squallido, ridondante, privo di colpi di scena se non solo verso il finale. L'ho trovato smielato, scontato e a volte inverosimile nella trama, eppure c'è qualcosa di cui vorrei sottolineare la qualità.
Il modo di scrivere della Mazzantini. Credo ci sia un vero e proprio talento letterario nel riuscire a dare, ad una storia mediocre, un involucro potentissimo ed estremamente singolare attraverso una scrittura eccellente.
Le immagini, le metafore, le digressioni, le riflessioni della protagonista femminile, che è l'io narrante del romanzo sono davvero inusuali, inaspettate, colpiscono dritte al cuore, come gli spari di quei cecchini di cui si parla raccontando la guerra.
L'autrice ha gettato, nel bel mezzo di una descrizione bellica, le sue impressioni di madre mancata, ha raccontato la nascita di un figlio acquisito con parole laceranti, mondane e volgari. Ha mischiato la vita con la morte, l'amore con la guerra, la follia amorosa con il tradimento e ha riprodotto le sembianze di una donna algida, sterile e sgraziata in un ritratto di donna forte, determinata, inarrestabile.
La storia racconta l'incredibile odissea di una donna che ricerca instancabilmente il suo diritto ad avere un figlio e si ritrova immersa in tragedie di proporzioni titaniche, eppure la ricchezza del suo pensiero e delle sue emozioni abbelliscono questo stancante romanzo. Da leggere soprattutto se appassionati dell'autrice.

Smashing Pumpkins in concerto a Milano

Lunedì sera sono arrivati gli Smashing Pumpkins in concerto al Forum di Assago e io ero lì.
Lo show inizia alle 21, il palazzetto si riempie a poco a poco, ma quando Billy Corgan e compagni entrano la gente è già tutta seduta e accalcata. Mi sembra che in un attimo ogni posto sia occupato. Ci sono persone di tutte le età e generazioni.
Attendo l'entrata degli Smashing Pumpkins con molta trepidazione. Quando il boato li accoglie, inizia lo spettacolo. Cerco di indovinare, come mio solito, quale sarà la canzone con la quale inizieranno a cantare.
Mi aspetto un'entrata in scena memorabile, l'apertura con una canzone famosa, ma non troppo, mi aspetto una 'Cherub rock' o una 'Tarantula'. Invece no. Rimango perplessa e tento di capire di che canzone si tratti. Non la riconosco. In realtà si tratta di 'Quasar', una nuova canzone. Dura, potente, prepotente.
Lo vedo Billy, anche se è lontano. E' sicuro di sè, maturo, appesantito, sfacciato. E' già lì che crea il suo show. Mi pare che non gli importi niente di essere il frontman degli Smashing Pumpkins. Mentre imbraccia quella chitarra, pensa solo a suonare la prossima canzone 'Panopticon'. E Billy continua a grattare  qulle corde, chi se ne importa se il pubblico non riconosce queste canzoni. Si capisce che i nuovi Smashing Pumpkins sono lì per non celebrare se stessi, per non piangere sull'era che li ha visti protagonisti. Forse sono lì per regalare qualcosa di diverso, di inaspettato, che creerà nuovo interesse per la band, attirerà un nuovo pubblico, farà nascere in Billy nuove ispirazioni. Mentre tento di decifrare la canzone successiva, senza riuscirci - si tratta di 'Starla' - , penso alla scelta coraggiosa e strafottente di proporre un concerto che non abbia quasi più niente a che fare con i testi strazianti del passato. D'altronde Corgan ha 44 anni, è nel pieno delle sue capacità compositive, spazia al di là della scrittura di una hit. Le hit ci sono già, io le aspetto con un'ansia che mi scoppia dentro. Arriva un piccolo segnale, la canzone successiva la conosco, è 'Geek U.S.A.'  tratta da 'Siamese Dream'. Mi ridà speranza. Invece no. Il palco è oscuro, ma non nel modo in cui potrebbe ricordare le zucche nella macabra e giocosa notte di Halloween; in un modo del tutto nuovo. 
Ho capito. Gli Smashing Pumpkins stanno percorrendo quell'eterna curva che chiude il cerchio, stanno quasi ritornando alle loro origini e lo stanno facendo diventando o ridiventando psichedelici. La musica è lisergica, le luci sono abbacinanti, gli effetti sonori tra una canzone e l'altra ricordano i Black Sabbath. Lo so perchè, sono sempre stati i miti di Billy. Seguono canzoni note e meno note come 'Muzzle', 'Lightning strikes', 'Soma', 'Siva', 'Oceania', 'Frale and beduzzled'. E' sempre più evidente che il messaggio di Billy è quello di rompere con il passato, ma di continuare a spaccare con la sua chitarra. Eccolo lì, con la sua zucca pelata rivolta verso le sue sei corde, la chitarra bianca, gli stivali e quella tipica posa da atleta in spaccata: le gambe divaricate, una di fronte all'altra, ben piantate per terra, una postura aggressiva, hard rock, la posa di Billly Corgan. Al suo fianco la bassista, una donna come nelle migliori tradizioni.
E' sempre più chiaro, i grandi successi che il pubblico conosce arriveranno tutti in fondo. Ma so già che rinunceremo a qualcosa di forte. Seguono 'Silverfuck', 'Pinwheels', 'Pale horse', 'Thrugh the eyes of Ruby', della quale riconosco lo stile cattivo dell'Infinita Tristezza e poi 'Cherub rock' prepara gli animi che esplodono in un rombo magico e finalmente abbiamo tutta per noi - e ho tutta per me- 'Tonight, tonight'.
Ho gridato le parole di quella canzone, come se le dovessi cantare per l'ultima volta. Magnifica.
Il bis ci regala ciò che non poteva mancare: 'For Martha', dedicata alla madre scomparsa, 'Zero' e 'Bullet with butterfly wings' che chiude lo show. Ho la gola rotta.
Immenso Billy. Intoccabile. La sua voce poteva cantare anche senza gli strumenti, il timbro è sempre e sempre sarà quello di un vagito commovente, di un bambino abbandonato, che ha vissuto da solo.

Saluta la folla, annuncia il nuovo album 'Oceania' per il prossimo anno , si intrattiene con il pubblico delle prime file e poi scompare, come sono scomparsi gli Smashing Pumpkins degli anni 90.

martedì 29 novembre 2011

U2 - Achtung Baby

Già il fatto che gli U2 avessero scelto un titolo mezzo tedesco, all'epoca, mi attirava parecchio.
Sarà poi che la Trabi in copertina mi faceva molto Berlino Est, che all'indomani della caduta del più grande Muro della storia, era sulla bocca di tutti e nella mia più fervida immaginazione. Le atmosfere erano intrise di est europeo, il disco ospitava musicista aggiunti alla band come Brian Eno e alcuni brani erano stati registrati proprio a Berlino. Si parlava di 'Zoo TV tour' e per me quel 'Zoo' era solo la parola del titolo di un film che aveva sconvolto la generazione degli adolescenti negli anni 80: 'Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino'.
Tutto questo fu sufficiente a convincermi nell'aprile del 1992 a farmi acquistare il mio primo CD, con i miei soldi della paghetta settimanale. Ero scettica, allora. Era difficile accettare il passaggio dal vinile o dal nastro registrato, ad un dischetto di plastica compatto, che ti potevi portare in giro comodamente. Non saprei dire se fossi più scontenta o più meravigliata, ricordo solo che il settimo disco degli U2 'Achtung Baby', stava occupando tutte le classifiche mondiali e alla radio alla mattina, prima di andare a scuola, suonavano sempre 'The Fly'.
'The Fly' non era che il modesto antipasto, confronto agli altri brani, di un disco grandioso.
Ancora oggi, si dice che gli U2 stessi non si siano mai ripresi da quell'ubriacatura di successo.
Io sono ferma lì, guardo Bono seduto al tavolo di un bar con un sigarillo tra le dita che canta 'One'. 'One' non ha bisogno di essere presentata; è solo un capolavoro, un brano immortale, immenso.
Altrettanto immenso fu Wim Wenders, che per il suo film 'Fino alla fine del mondo' scelse 'Until the end of the world' come canzone per la colonna sonora. 
Personalmente ho amato più di tutte la lunghissima e profonda 'So cruel', con una metrica perfetta e una musica che sembra suonare a rallentatore. Ricordo la carica di 'Mysterious ways' che all'epoca era ballabile ed energetica e che adesso magari sente un po' il tempo, ma è bella perchè ricorda proprio quei tempi.
In chiusura arrivano poi due pezzi potentissimi 'Acrobat' e 'Love is blindness'.

Considero quest'album, un'opera che ha dato inizio alla concezione del disco come evento mediatico. Penso che Bono e soci abbiano prodotto ottima musica, ma che abbiano anche saputo sfruttare temi e momenti storici dell'epoca, in un modo in cui solo grandi band sono riuscite a fare.
Sono riusciti a infilare il tema della caduta del Muro e l'apertura dei paesi est europei in maniera sottile, hanno iniziato un tour in cui si trovavano echi di 'Ziggy Stardust', quando Bono si travestì da MacPhisto allo show di Sidney; sono riusciti a fotografare idealmente un momento e lasciarlo fermo lì per sempre, come un immagine preziosa, come un dipinto che rimane appeso nella nostra memoria.

sabato 26 novembre 2011

L'insostenibile leggerezza dei libri

Se ricordo bene, tutto è cominciato con la mia prima lettura 'letteraria', dopo il mio primo viaggio in Russia.
Tornando, decisi di fare conoscenza con Dostoevskij e presi in prestito, nella biblioteca comunale del mio paese, uno dei suoi capolavori assoluti: 'Delitto e Castigo'. Fu così che, nell'estate del 1994, ebbe inizio la mia passione per la lettura.
Stavo seduta sulla sedia di vimini dello mio balcone e leggevo Dostoevskij e dopo di lui Kafka, Hesse, Turgenev, Tolstoj. Da allora, nonostante non sia più seduta su quella sedia di vimini, la mia passione è continuata nel tempo. Nel tempo dell'università, quando leggevo alle 7 del mattino seduta nell'autobus e poi in piedi in metropolitana, dove era impossibile trovare un posto a sedere e, mentre uno sconosciuto mi alitava di fianco, io mi figuravo le mirabolanti avventure di Cicikov ne 'Le Anime Morte' attraverso la campagna russa e la sera, tornando, questa volta in piedi sull'autobus rileggevo 'Il Processo' di Kafka e poi alla sera, prima di addormentarmi nel letto, ricordo le notti insonni mentre divoravo 'Il Dottor Zhivago'. Non smettevo mai di leggere, nemmeno quando l'oculista mi diceva di riposare gli occhi perchè continuavo a perdere diottrie. Sono diventata miope. Forse è stata un po' colpa anche della letteratura tedesca, di Isaac Singer, di Heinrich Boell, di Goethe e di nuovo di Kafka con il suo 'Castello' e il suo 'America'. Quando passavo gli esami, il mio personale premio era andare a comprare un libro alla libreria dell'università. Mi aspettavano i poeti russi, gli autori cechi e di nuovo Dostoevskij con i suoi 'Demoni', 'I Fratelli Karamazov' e 'Umiliati e Offesi'.
Durante le vacanze di Pasqua e di Natale sceglievo dei libri che si addicessero alle atmosfere: 'Anna Karenina' o 'Il Maestro e Margherita'. C'era sempre un modo per leggere. Di notte con le braccia scoperte al freddo o d'estate tormentata dall'afa cittadina e dalle lenzuola troppo calde.
Anche quando ho iniziato a lavorare avevo con me sempre un libro. Di musica, o che parlasse di Russia, di viaggi, di poesia. Durante i turni serali all'aeroporto di Malpensa, nel silenzio delle hall ormai desolate portavo con me i pensieri di Pessoa e la sua inquietudine; tra un lavoro e un altro, in ufficio, approfittavo per leggere qualche pagina di Pelevin.
A volte ho addirittura deciso di rifiutare degli inviti a uscire, per stare a casa a leggere. In quel caso forse si trattava di 'roba davvero forte'; forse era Murakami, che pure lui quand'era giovane rimaneva chiuso nella sua stanza a leggere anzichè uscire con gli amici.
Ancora adesso, questa passione non mi abbandona. Direi che è diventata quasi un'ossessione, soprattutto da quando con un amico, facciamo a gara a chi legge più libri. Sono arrivata ad un record di 50 all'anno. Quest'anno proverò a superarlo.
D'altronde leggo sempre, leggo in macchina mentre sono in coda ai lunghissimi semafori rossi, leggo mentre aspetto i miei studenti a lezione, mentre aspetto di mangiare, mentre sono in bagno, prima di dormire, mentre sono in attesa dal dottore e da molto tempo ho sviluppato anche una certa capacità a leggere anche mentre ascolto la musica o guardo un film. Sì anche davanti alla televisione.
Lo so, sono malata. Ma è una malattia stupendamente incurabile. Ora il problema è diventato soltanto dove mettere i libri in casa. Non ci stanno più e come una sorta di enorme cerchio che si chiude, sto tornando a prendere in prestito dei libri in biblioteca come facevo da studente.
Quanto mi sono costati tutti questi libri! Li ho tenuti così bene che potrei rivenderli e nessuno si accorgerebbe che sono stati già letti. Alcuni li ho foderati, in altri sono rimasti vecchi segnali libri, di alcuni ho sottolineato, in matita, dei passaggi irresistibili e certi versi li ho voluti imparare a memoria per non dimenticarli più.
Altri li ho persi per sempre nel vuoto della dimenticanza, altri ancora li ho maledetti, me li sono trascinati per mesi, li ho maltrattati per dar loro una personalità - ma sono pochi -, li ho quasi sempre scelti con cura, come  dei pezzi di una preziosa collezione, ho prestato attenzione alle copertine, all'odore della carta, alla piacevole sensazione che provoca toccare i nomi in rilievo sul frontespizio.
Ho letto libri in ogni parte del mondo. Negli aeroporti di Mosca, Osaka, Boston, L'Havana, Chicago, New York. Ho letto sulle panchine di Lisbona, sulle spiagge di Zanzibar, della Tailandia e negli hotel di Washington D.C., di San Pietroburgo, di Dubai e di Istanbul. Ogni libro che ho portato in viaggio con me era un pezzo di quel paese, per derivazione o per adozione, per capire e per imparare.
Non avrei mai potuto essere ciò che sono senza quei libri nelle valigie, nelle borse, negli zaini, sotto le braccia, nelle mie mani. Ancora adesso non vado da nessuna parte se non ho un libro con me.
Quando ero una lavoratrice dipendente godevo di questo pensiero: 'ora leggo dieci minuti, così mio caro datore di lavoro, ti frego dieci minuti dei tuoi soldi e mi avrai pagato per leggere'.
Ora il mio pensiero è: 'non voglio i soldi di nessuno per leggere, voglio solo avere la libertà di continuare a farlo'.

mercoledì 23 novembre 2011

Nirvana - Nevermind

A proposito di anni 90, che pochi post fa ho tirato in ballo quando parlavo di Smashing Pumpkins, vorrei dire la mia su IL disco simbolo di quel decennio. Simbolo poichè la stampa musicale lo ha assurto a ciò, all'unanimità, e ne ha celebrato, insieme al mito di Kurt Cobain, ancor più che in vita, post mortem tutta la sua spropositata grandezza. Ovviamente parlo di 'Nevermind'.
Nonostante sia stata adolescente in pieno decennio anni 90, non ho vissuto il fascino dei Nirvana. Ricordo appena le loro canzoni più famose passare alla radio, ricordo che alcuni ragazzi del mio liceo indossavano la maglietta che riproduceva la copertina del bimbo arrapato - per giunta disgustoso- che tenta di acchiappare il dollaro americano. Ricordo benissimo il pullover infeltrito e le camicie a scacchi della moda grunge, ma non ricordo che Cobain fosse così tanto amato quando era ancora vivo. Come sempre la morte azzera le malefatte di ognuno, chicchessia. 
Lo so, sarò dissacratoria, ma io vivevo piuttosto il mio personale idillio con band un pochino più sofisticate come i Rem e ancora ci si poteva permettere di amare gli U2, che avevano tirato fuori niente po' po' di meno che 'Achtung Baby'. Non ho nemmeno mai comprato 'Nevermind' o neppure ci sono andata vicina, fino a molti anni dopo, diciamo agli inizi degli anni zero.
Insomma, lo confesso, non ho mai capito la grandezza di quell'album. Ancora adesso, ogni volta che lo metto su, mi riprometto di impegnarmi nell'ascolto e di rileggere le parole disperate di Cobain. Lo faccio, lo rifaccio, lo ascolto e lo riascolto cercando di capirlo, cercando di trovare quella magia così tanto osannata dalla critica musicale. Ma sempre mi chiedo: 'perchè mi dimentico che esista?'. Se non lo ascolto per un po', magari poi mi  va di rifarlo, ma manca sempre quel qualcosa, quell'alchimia, quel click di quando il tuo orecchio musicale si incastra perfettamente con il cuore e senti che tu avresti voluto dire esattamente quelle stesse cose che ha detto un cantante che ami.
Intendiamoci, le canzoni sono stupende, lo stile era e rimane unico, il genere pure. Ci sono hit ineguagliabili come 'Smell like teen spirit', 'Come as you are', 'Lithium', 'Breed' e ci sono canzoni di pura qualità come 'Polly', 'Something in the way', 'Lounge Act'. Insomma, ogni canzone è un singolo successo. Un vero capolavoro, eppure c'è sempre qualcosa che manca e penso che oggi, mentre in macchina l'ho riascoltato per l'ennesima volta, ho capito cosa c'è che non. Il rumore.
La musica dei Nirvana è rumore, un rumore che soffoca, che soffoca le parole stesse di Kurt Cobain. Forse era voluto o forse addirittura intrinseco, fisiologico all'arte del biondo cantante rock più triste della storia. Peccato, perchè la capacità lirica di quest'uomo, di questo ennesimo maledetto del rock è davvero buona. Forse quella musica era già un suicidio per lui, una morte per annegamento, un annegare in un mare di rumore e di urla, che lo hanno fatto rimanere un ragazzino di 27 anni per sempre.
Mi dolgo davvero molto di non riuscire a far mia la musica del decennio che ha segnato in modo vetriolico la mia adolescenza, eppure spero che un giorno di questi, rimettendo su quel disco riuscirò a sentire meglio la voce di Cobain, a rischiararmi un po' le idee, a cadere colpita dalla folgore di questo mito del rock, che sono ormai da tempo i Nirvana.

martedì 22 novembre 2011

Franz Kafka e il mio processo

Vorrei dedicare il mio centesimo post ad una parte importante della mia formazione culturale.
Essa ha un nome e un cognome. Franz Kafka. Scrittore ceco di lingua tedesca e di etnia ebraica, nato a Praga il 3 luglio del 1883 e morto a Kierling il 3 giugno del 1924. Egli è ancora oggi uno dei miei idoli letterari.

'Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., poichè un mattino, senza che avesse fatto nulla di male, egli fu arrestato.'
Si può resistere ad un incipit di questo genere? Io non ho potuto. Nè la prima volta che lo lessi e allo stesso modo, nemmeno tutte le successive. La mano di Kafka, come l'artiglio di quella cornacchia, che il suo nome nella lingua ceca significa, ebbe una presa talmente forte che mi arrivò fin nel cervello.

Si trattava dell'incipit de 'Il Processo'.
Che cosa aveva fatto quel certo signor Josef K.? E perchè poi nascondere il cognome dietro quella K.? Perchè nessuno accorse mai in aiuto di questo inetto, sparuto, passivo impiegato di banca? E perchè quel tribunale non dichiarò mai quale fosse la sua colpa?
A 18 anni tutte queste domande mi tormentavano come un malanno. Come dice Primo Levi, per lui completare la traduzione di questo romanzo fu come uscire da una malattia. Anch'io mentre leggevo, ogni volta, in ogni momento dell'anno sentivo la ricaduta in quello stato d'animo simile ad un'influenza. 
Forse era la famosa 'dasein schuld' (la colpa dell'essere), quello stato in cui l'angosciato Franz Kafka visse tutta la sua vita, sentendosi inadatto. 
Ora quelle stesse domande si sono chiarite nella mia mente e le risposte hanno assunto una portata dirompente. Aver trovato il senso di un libro come 'Il Processo', aveva aperto una strada abissale davanti a me e aveva automaticamente chiuso tutte le altre. Non c'è via di scampo alle parole di Kafka, una volta che ti trafiggono, te le porti appresso come cicatrici invisibili sul corpo, nell'animo, nella coscienza. Si insinuano laddove vorresti trovare un po' di pace e invece Kafka vi ha riposto tutta la sua inadeguatezza, che è diventata la tua.
Dunque, quando sei nei trentanni inoltrati, che poi è l'età in cui Kafka stesso iniziò a scrivere il suo più conosciuto romanzo, non hai più bisogno di chiederti il perchè, poichè temi già di sapere perchè un tribunale dovrebbe condannare qualcuno, senza dichiararne il motivo. Vigliaccamente allontani le risposte. Ne temi le conseguenze.
Il processo mi attanaglia ancora oggi. I suoi artigli sono diventati tentacoli. Condivido idealmente la sorte di Kafka che scriveva

                                      ' Le norme della quadriglia sono chiare, tutti i ballerini le conoscono, sono
                                       valide per tutti i tempi. Ma uno di quei casi fortuiti della vita che non
                                       dovrebbero mai accadere, e che pure accadono di continuo, ti isola, solo
                                       soletto, in mezzo alle righe. Può darsi che questo provochi uno scompiglio
                                       nelle righe stesse, ma tu non lo sai, non pensi ad altro che alla tua infelicità'

Chiunque sia prigioniero di se stesso, capisce il Processo. La figura di Kafka è tutta intera nella sua stessa  letteratura, non solo nel Processo, ma anche negli altri romanzi più noti come 'America o il disperso' e 'Il Castello', come pure nei racconti, che sono pregni di tematiche quasi profetiche. In lui si vide a livello storico-sociale, l'antesignana vittima sacrificale dell'Olocausto e da un punto di vista letterario l'uomo inetto del novecento. L'uomo che non riusciva a rapportarsi alle donne, alla sua fisicità e alla propria appartenenza etnica e religiosa.
Il segreto di Kafka sta in un confine sconosciuto tra il suo torvo sguardo e le sue parole di pietra, che continuano a non chiedersi 'perchè', poichè già sanno.
Quando più tardi comprai i 'Quaderni in ottavo', che è una magnifica raccolta di aforismi e pensieri dello scrittore, trovai queste parole e compatii quell'uomo ossuto e 'disperso' in una breve frase, che Franz Kafka sembrava crudelmente urlare a se stesso

                                'Ti sei bardato in modo ridicolo per questo mondo.

Ecco che cos'era il processo. Un punto messo ad una vita. Un'autoanalisi che non ha lasciato scampo allo scrittore-uomo, perso in un eccellente mal di vivere.
Leggere 'Il Processo' è come staccare un intero costone di roccia alla monolitica costruzione dello scibile letterario, non rimarrà molto altro intorno. Ne sarete sopraffatti.

Stanno per arrivare...gli Smashing Pumpkins

Quando ho scoperto, per puro caso, che gli Smashing Pumpkins sarebbero tornati a esibirsi a Milano, non stavo nella pelle. Ho deciso di informarmi per acquistare immediatamente i biglietti del concerto.
Immaginavo che lo scarso interesse che attualmente viene rivolto alla band, mi avrebbe aiutato a trovarli. Così è stato. Non capisco questo strano fenomeno dell'abbandono da parte della stampa nei confronti di alcune band. Ricordo che già dopo i fasti del capolavoro 'Mellon Collie and the Infinite Sadness', quando uscì il coraggioso e fuorviante 'Adore', tutte le testate musicali del momento proclamarono immediatamente la crisi del gruppo e quasi ne sancirono la fine.
Forse fu per colpa dell'orribile incidente di droga che colpì il chitarrista aggiunto e che lo uccise, forse perchè il batterista Chamberlin fu allontanato per gli stessi preoccupanti motivi. Gli Smashing Pumpkins erano già stati dichiarati clinicamente morti quando uscì 'Machina; the machines of God'. Non si dava loro più alcuna credibilità. Corgan decise dunque di porre fine all'agonia. Le zucche si erano definitivamente infrante contro la realtà, contro il giro di boa che vedeva la fine del millennio e la fine del grunge, di quel decennio che gridava sofferenza da Seattle, fino alla cantina gelata nella quale suonava, da adolescente, un tristissimo Billy Corgan  in quel di Chicago.
Ma tutto questo è storia. Una storia dolorosamente passata. Quello che resta è la musica.
Gli Smashing Pumpkins del 2011 sono ormai sfigurati. Si è salvata soltanto la zucca pelata di Corgan e la tecnica musicale di Jimmy Chamberlin: unici superstiti della formazione degli anni '90.
Ma io mi dico: chissenefrega se il chitarrista James Iha e la bassista D'Arcy non ci sono più. E' di nuovo la musica che ci rimane e quel che è più importante, le corde vocali che hanno cantato certe canzoni, sono ancora lì, ferme nella gola del creatore, ideatore, autore e frontman del gruppo.
Sono certa che la rabbia di Corgan sia ancora un nocciolo duro ingoiato da quella gola, ma fermo sul suo petto, pronto ad essere sputato fuori, quando dirà per l'ennesima volta, quanto sia stata triste e dolorosa la sua vita.
Dunque, sono felice che nonostante mi sia persa le performance della formazione originale del 1996, tutto sia ancora lì come quelle 'braci che non svaniscono mai nella città vicino al lago'....

Il concerto sarà lunedì 28 novembre. Novembre è perfetto: opaco, umido e inscrutabile come quel lago, freddo come la lucida testa rasata di Billy e annichilente come la scritta 'ZERO', sopra una maglietta che indossava per dichiarare al mondo la considerazione che aveva della propria forza contro il proprio dolore.

Io intanto mi sto rinfrescando la memoria con un bel libretto che riassume un po' la storia della band e che raccoglie delle brevi dichiarazioni di tutti i componenti. Si chiama 'Smashing Pumpkins. Il mondo è un vampiro' di Eddy Cilia. 
Per il resto non vedo l'ora di rivivere quelle atmosfere dei tardi e sopiti anni '90...Vi saprò dire.


domenica 20 novembre 2011

La cucina totalitaria - Wladimir Kaminer

L'ultima frase della breve sinossi che introduce e invoglia alla lettura, recita: 'per palati forti'.
E' vero. In tutti i sensi, anche quello del gusto, l'esperienza con ciò che è russo o simil-russo è sempre molto forte. 'La cucina totalitaria' di Wladimir Kaminer è un piccolo compendio e di aneddoti, curiosità, bizzarri incontri e farfuglianti discorsi con tutta la cultura culinaria dell'est Europa. Si potrebbe addirittura pensare che questo simpatico libro abbia adottato l'espediente narrativo della cucina per parlare, in verità, della natura ex-sovietica.
Insieme alla natura, si ritrovano la geografia, la storia e il folclore di popoli di cui poco si è saputo per decenni, per via della loro forzata immobilità tipica dell'epoca realsocialista.
Kaminer, tratta e propone con estrema ironia e con il suo solito tocco di scrittore attratto dall'elemento assurdo dell'animo umano il tema della cucina, così come avrebbe potuto trattare la politica totalitaria, all'ombra della quale, visse nei suoi anni di Berlino nel cuore della comunità russa.
Al termine di ogni breve capitolo, si colloca una vera e propria ricetta, che sua moglie Olga ha preparato e fatto assaggiare ai loro amici nel corso delle loro esperienze cultural-culinarie.
Leggere questo libro è uno dei tanti modi alternativi o tangenti, attraverso i quali si raggiunge sempre il cuore della madre Russia.

sabato 19 novembre 2011

In fondo al viale del sole - Thomas Brussig

La piccola, plasticosa Trabi in copertina la dice tutta: questo libro parla del passato. Un passato tramontato proprio in fondo al viale del sole, come invece recita il titolo. Quel sole che il mondo socialista vedeva splendere più lontano di tutti.
Spiazzante per la sua immediatezza e semplicità. Commovente, ingenuo ed esilarante per le gesta di questi piccoli ed immensi personaggi, che hanno popolato la Germania Est, proprio sul finire della sua storia moderna.
Thomas Brussig racconta, con una delicatissima ironia e una velata malinconia, lo storia di Misha che vive le sue giornate pensando a come conquistare la ragazza dei suoi sogni, Miriam, e cerca di sopravvivere agli insulti e alle prese in giro dei suoi coetanei, che vivono al di là del muro di Berlino. 
Quando lessi questo libro, immaginai Potsdamer Platz e la terra di nessuno, il Check Point Charlie e i cosiddetti Vapos, ma non immaginai come potessero vivere davvero delle persone comuni al di là di quel muro segreto e leggere questo libro fu il mio personale modo di far cadere un muro. Un muro che da questa parte del mondo sembrava sempre e soltanto cattivo, insidioso, inavvicinabile e soprattutto incrollabile. Un muro che dentro questo libro diventa il punto in cui, la lettera d'amore che Misha e gli altri cercavano di recuperare nella striscia della morte, diventa l'unico punto pulsante che accomuna ogni parte.
Bellissimo il finale, profetico e simbolico, come la macchia sulla fronte di quell'uomo che sapeva di libertà.

venerdì 18 novembre 2011

Eyes wide shut - Stanley Kubrick

Ho guardato e riguardato questo lungo e lentissimo film perchè, ogni volta, quelle enigmatiche atmosfere kubrickiane mi inchiodano allo schermo e mi spingono ad arrovellarmi il cervello, per trovare una plausibile spiegazione a tutto ciò che accade.
C'è una domanda, in particolare, che mi tormenta. La maschera che il dottore trova sul cuscino, da dove arriva?

L'ultimo controverso capolavoro di Kubrick, uscito nel 1999 dopo la morte del grande regista, a quel che si dice,  segue per filo e per segno la trama del romanzo di Arthur Schnitzler 'Doppio sogno'.
La storia è dunque nota- Il Dr. William Harford, interpretato da Tom Cruise, in seguito alle confessioni delle fantasie sessuali della moglie Alice (Nicole Kidman), si inoltra in una farraginosa e inquietante avventura a stretto contatto con le perversioni del mondo intorno a sè e con le proprie.
Venuto a conoscenza di un 'sogno traditore' da parte della moglie, rimane ossessionato dalle visioni della moglie potenzialmente fedifraga e decide di vendicare la sua fanatasia, tuffandosi in un'esperienza segreta, che lo porterà a compromettere la propria integrità. Quasi coinvolto in un omicidio e minacciato di morte, il dottore cercherà comunque di indagare nella faccenda e dentro se stesso, dove si annidano pensieri e deisideri repressi, fino a quando confesserà alla moglie l'accaduto.

Al di là della storia, che come quasi tutte quelle di Kubrick, sono tratte da romanzi e scritti, ancora una volta la grandezza del regista sta nell'espressione. Ci sono due elementi che di Kubrick amo particolarmente; l'impressione di essere in un sogno, con tutte le sue distorsioni psico-temporali e i colori o le luci, che si insinuano nel racconto come protagonisti. 
In Eyes Wide Shut, per esempio, quando il dottore si intrufola alla festa mascherata segreta, sembra di entrare  nell'assurda dimensione onirica di un uomo ossessionato dal sesso. Le scene orgiastiche e perverse, insieme all'ipnotica musica di Jocelyn Pool che si espande sulla liturgia e le undici donne in cerchio, quasi tutte uguali nella corporatura, sembrano il sogno erotico di un qualsiasi uomo. Ma l'impossibilità a raggiungerle, la disfatta del dottore, miseramente scoperto come un intruso, esaltano l'incompiutezza del sogno. I particolari dettagliati e disinibiti, le riprese con l'estrema zoomata ci catapultano in una realtà che sembra si possa toccare con mano, anche rimanendo spettatori. Non solo in questa scena, ma anche nella nitida attenzione sui particolari delle case, delle strade, dei salotti, delle stanza, dei tappeti, delle immense librerie, ci rendono protagonisti silenziosi e 'guardoni' del sogno, trasformato in una satura e grottesca realtà che attanaglia in una suspence, volutamente singhiozzante, l'avventura del dottor Harford.
Il secondo elemento, che già avevo ritrovato in Arancia Meccanica e Shining, è quello del colore come leitmotiv. In Eyes Wide Shut, pare che la discromia ottenuta dalla presenza ingombrante delle luci fucsia degli alberi di Natale, abbia una funzione di collante. Ovunque si muova il dottore nelle 48 ore in cui si svolge il film, si ritrova, come un'allitterazione cromatica, la dozzinale presenza delle luci di Natale e tutte queste luci sembrano uguali, come se fosse un unico occhio a vederle e un'unica mente a ricordarle. Sono stucchevoli, oniriche anch'esse, sature, soffocanti. Ma sono l'inequivocabile tocco, della capacità di Kubrick, di rendere i propri film psichedelici e al contempo psicogeni. Il film di Kubrick, oltre che raccontare una storia, racconta uno stato di angoscia esistenziale, rivela la parte cerebrale che il canonico film d'intrattenimento ignora e ci lascia dimenticare.
Kubrick, come un neurochirurgo, sviscera le sinapsi della nostra mente e opera con mano ferma sulla realtà, trasformandola in visione surreale. Magnifico film, sempre magnifico Kubrick.

mercoledì 16 novembre 2011

Igor Kostin - Confessioni di un reporter

Ogni tanto riaffiora il ricordo di Chernobyl, ogni tanto penso a quei prati verdi dell'Ucraina, che sconfinano negli stessi prati verdi della Bielorussia. Penso a quelle piatte distese di un verde gemello del giallo e penso alla gente che viveva nella cittadina di Pripjat, costruita dall'entusiastico governo socialista poco lontano dalla centrale nucleare di Chernobyl, per dare alloggio a coloro che vivevano grazie  alla costruzione e al funzionamento di quell'impianto. Ma poi penso al cemento malato della Bielorussia. Penso a quella ferita inguaribile, quella cicatrice che ha sfigurato l'intero blocco comunista e ha ucciso, sterminato e triturato la vita campestre e la vita comune di centinaia di migliaia di persone.
Ogni tanto penso ad uno dei libri più toccanti che abbia mai posseduto, grazie ad un prezioso regalo. Un libro che ho divorato e letto o, come in questo caso, sfogliato con una foga e una morbosità, tipiche dell'animo umano e che mi ha riportato indietro nel tempo, nella memoria di un mondo perduto e di un momento della mia vita, che più o meno volontariamente, ha condizionato decisioni e stati d'animo dei miei anni di adolescente e oltre.
Vorrei consigliarvi di acquistare 'Confessioni di un reporter' di Igor Kostin, sempre che abbiate il fegato di guardare delle fotografie davvero forti, distruttive, aberranti.
Vorrei parlarvi di questo primo fotoreporter, nato in Romania nel 1936, ma di origine russe, che per primo ha documentato l'incidente alla centrale nucleare di Chernobyl del 1986, il primo che ha visto con i suoi occhi l'inferno nucleare sulla terra, a quel tempo sovietica e le cui pellicole si bruciavano per via dell'estrema esposizione alla radiazione.
Quest'uomo fu l'unico uomo al mondo autorizzato a recarsi sul posto, oltre ai volontari che prestarono soccorso per estinguere il fuoco al reattore n. 4 per interi giorni, per riprendere i momenti cruciali di quell'inverosimile giorno. 
Kostin era, a quel tempo, uno dei fotografi dell'agenzia Novosti di Kiev in Ucraina e la sua documentazione fotografica aveva avuto il potere di innescare un terrore di portata mondiale, riprendendo l'incidente in tutta la sua estensione. Il governo sovietico, tuttavia, decise di limitare e censurare per anni, cioè quasi fino al collasso dell'Urss nel 1991, l'informazione visiva e anche quella cartacea riguardante l'incidente. Basti pensare che solo tre giorni dopo, la notizia trapelò quasi furtivamente in tutta l'Europa. 
Grazie a Igor Kostin, al suo coraggio, alla sua arte fotografica, al suo coraggio oggi si possono visionare attraverso questo triste, incredibile, dannato libro fotografico, le immagini di quei giorni.
Preparate le viscere, le budella, le lacrime e la rabbia, lo stupore dei vostri animi prima di aprire questo libro.
Io personalmente, l'ho divorato in un giorno e nonostante mi riprometta spesso di risfogliarlo, prima o poi, non ci sono ancora riuscita. E' come se da esso riaffiorasse quel terrore, quella psicosi, quella inspiegabile, trasparente contaminazione dell'infetta radiazione.
Per stomaci forti e per veri appassionati di questo tristissimo caso.

martedì 15 novembre 2011

The Lincoln Lawyer

Volete vedere un Matthew Mcconaughey in una veste finalmente seria e in una parte da attore vero? Cioè non come l'avete visto finora, in quella misere parti da attorucolo da commedia americana?
Allora guardate 'The Lincoln Lawyer', un film di quest'anno diretto da Brad Furman e tratto dal romanzo dell'ottimo romanziere Michael Connelly 'Avvocato di difesa'.
Mick Haller, Mcconaughey appunto, è un avvocato che gira con tanto di autista, nella sua Lincoln nera, per le strade di una Los Angeles sempre più fosca. La sua dubbia moralità spinge i più loschi individui ad ingaggiarlo per essere difesi, finchè un giorno viene contattato da Louis Roulet, che è accusato di aver violentato e malmenato una ragazza. Avendo già  avuto a che fare con un analogo caso in passato, Haller troverà la connessione tra i due atti di violenza e deciderà di procedere a difendere Roulet solo per poterlo incastrare all'ultimo, con un colpo di coda magistrale.
Sono rimasta oltremodo colpita da questo film proprio per l'interpretazione di Mcconaughey, ma soprattutto ho avuto modo di riassaporare quelle atmosfere losangeline, che sempre mi ricordano uno dei più bei film della storia ambientati nella turpe e maledetta Los Angeles, cioè 'Collateral'.
Anche in questa pellicola ho ritrovato il giallo delle pepite d'oro del west americano, sparpagliato nei foschi cieli incollati a ridosso del deserto californiano, il rosso sanguigno della malcelata e sedicente violenza di una città quasi sempre sul confine tra l'indecenza e l'ingiustizia, il grigio dell'asfalto e delle freeway che hanno colonizzato il dorso di questa civiltà ibrida e poi c'è quel non-colore dei contorni sfumati, del sapore dell'aria sudaticcia e obnubilante che si insinua nei vicoli, nei sobborghi e nello sky-line di questa controversa e contesa città. Una città contesa da differenti etnie, da differenti estrazioni sociali, da un business potentissimo e uno ai limiti della legalità, da un clima mite e un caldo micidiale, da un antico avamposto fiorito e rigoglioso, alla pericolante appendice di una terra che si stacca, ogni giorno di più, dal corpo della propria madre. 
Un bel film, dunque anche per le atmosfere, oltre che per una trama piuttosto originale e tortuosa.

lunedì 14 novembre 2011

Il nuovo libro di Murakami

Si chiama 1Q84 e ovviamente ricorda il suo gemello più famoso: il monolitico e Orwelliano 1984, mito indiscusso dell'era post-moderna, che creò il concetto di grande fratello. Quello vero, quello reale, quello sociale, però, e non quello dei reality show.
Quella Q del titolo di Murakami, se pronunciata nella lingua originale, rievoca per assonanza linguistica il modo in cui si dice il numero 9 in giapponese, che, combinazione è anche uguale alla pronuncia inglese della lettera 'Q' (kyuu). Ma alcuni critici hanno già intravisto in quella, anche il simbolo della Q di 'question', cioè di domanda. Il grande interrogativo, il punto di domanda.
A quello che ho già letto in rete, l'edizione italiana uscita nelle librerie l'8 novembre scorso, raccoglie il primo e il secondo volume dei tre già scritti e pubblicati in Giappone. 1Q84 è andato a ruba nel suo paese e negli Stati Uniti e si prevede il solito enorme successo di pubblico anche qui in Italia.

La storia non ve la racconto, anch'io l'ho leggiucchiata a malapena qui e là su alcuni siti, ma non voglio sapere molto. Voglio solo andare a comprarlo, lasciarlo sedimentare un po' nella mia libreria, aspettare che la curiosità mi abbia totalmente divorato e poi cedere come una donnicciola qualunque al fascino irresistibile di quel primo momento in cui si apre il libro, si sfiorano le pagine, che odorano di nuovo e iniziare a leggere, come se sotto ogni parole vi sia la trama di un'altra.
Un po' come di solito fa lo stesso Murakami, che ci fa intravedere da una piccola finestra la realtà e poi al di qua di questa finestra, tra noi ed essa ci fa percorrere infiniti spazi, infinite altre realtà parallele, nuove prospettive e interpretazioni. Starò a vedere, questa volta, quali sono quelle dei due protagonisti Aomame e Tengo catapultati all'indietro nel fatidico 1984.

domenica 13 novembre 2011

Soba e tsuyu

Mentre il Miso Nabe bolliva beato nel pentolone lo scorso martedì sera, il mio amico Taichiro mi ha raccontato al volo come ottenere una buon brodo di soba.

Dopo aver fatto bollire una pentola d'acqua, versare gli spaghetti di soba. Dopo soli 3 minuti di cottura, rimuovere gli spaghetti dall'acqua e conservarla.
Una volta, scolati, gli spaghetti di soba si possono gustare in due modi. Se sono serviti caldi, vengono conditi con l'apposita salsa tsuyu della cipolletta, che in giapponese si chiama negi e una fetta di kamaboko (fish cake). Questo tipo di soba si chiama kake soba
In estate invece, di solito, la soba si gusta fredda insieme a pezzetti di alga essiccata (chiamati nori) e cipolletta (negi) e wasabi, versati nella salsa tsuyu, così da farli diventare 'Zaru soba'. Questi, di solito, vengono adagiati su di un'elegante matassina di bamboo.

Se invece si vuole sorbire anche una gustosa zuppa di soba, basta semplicemente aggiungere la salsa per soba tsuyu all'acqua rimasta dalla cottura degli spaghetti. Di solito si gusta in inverno e qualcuno vi annega dentro direttamente gli spaghetti, anche se il giusto modo di mangiarli sarebbe di intingerli leggermente nella salsina. 

Di modi per cucinare soba ce ne sono tantissimi e tutti ottimi. La soba in sè non è nient'altro che spaghetti di grano saraceno per otto parti e due parti di grano di frumento, infatti viene chiamata Ni-hachi (due, otto).
Un po' come succedeva per i ramen, la soba si gusta un po' ovunque in Giappone ed è considerato un piatto veloce e nutriente. Si trovano parecchi baracchini per la strada, nei quali andare a mangiarla, per esempio, durante la classica pausa pranzo. Ovviamente è d'obbligo succhiare (tsuru-tsuru) gli spaghetti, specie quelli caldi, per far sì che si raffreddino meglio in bocca e per mostrare al cuoco che stiamo gradendo il piatto.
Nei negozi si possono acquistare anche confezioni di soba già pronti e istantanei da preparare.
Sono felice che il mio caro amico giapponese, mi abbia portato un bel po' di scorte di questi magici spaghetti, per i miei pranzi solitari davanti ad un racconto di Murakami.
Ovviamente il meraviglioso packaging giapponese, guarnito di ideogrammi, non fanno che aumentare l'appeal culinario che esercitano su di me.

sabato 12 novembre 2011

Il Miso Nabe di Taichiro

Dopo 4 anni di assenza dall'Italia e dopo il nostro ultimo incontro in Giappone del 2008, finalmente è tornato a farci visita il nostro amico giapponese Taichiro. Ormai non ci sono più dubbi, nè scuse. Aspettiamo sempre con ansia il suo arrivo, perchè come una sorta di Babbo Natale d'oriente, si presenta a noi con doni e prelibatezze culinarie del suo paese.
Prima della sua partenza da Osaka, gli avevo chiesto giusto un paio di scatole di tè verde, ma le mie richieste sono state ultra-esaudite e questa volta ho ricevuto regali di ogni sorta: buste di ramen istantaneo, spaghetti di soba, spaghetti al tè verde, dolci di Osaka e dintorni, piccole briosche ripiene di maron glassè, scatole e buste di tè verde e di tè di riso, salse per condire gli spaghetti di riso, l'insalata, lo shabu shabu e miso in busta per preparare delle ottime zuppe. 
Per questa serata internazionale organizzata a casa dei miei genitori, avevo con me anche un'amica americana, che donava al nostro convito una completezza pressochè geografica. A tavola sedevano infatti membri provenienti da tre continenti: Europa, Asia e America!

Taichiro è un giapponese bizzarro, egli stesso si definisce un 'nippo-napoletano', forse perchè, dice lui, parla un giapponese del sud quasi incomprensibile. E' molto aperto, molto poco cerimonioso e quasi sempre sulle nuvole. Era martedì scorso 8 novembre; è entrato in casa, si è tolto le scarpe, si è lavato le mani e ha cominciato a trafficare in cucina. Il piatto che avrebbe preparato si chiama 'Miso Nabe'.

Si tratta di una zuppa a base di cavolo cinese, petto di pollo e una dose di miso in polvere da versare direttaemente nell'acqua. Secondo Taichiro era uno spasso stare lì a cucinare per noi e il suo modo di dire 'It's very easy' mi riempiva di speranza di poter riprodurre prossimamente lo stesso piatto anche a casa mia, avendo adesso a disposizione anche l'ingrediente segreto nella bustina di miso.

Miso Nabe

per 5 persone

- un grosso cavolo cinese
- 7 etti di petti di pollo
- una busta di miso aromatizzato in busta

Riempire una pentola da brodo di circa un terzo e metterla sul fornello.  
Nel frattempo tagliare il cavolo cinese in pezzi medi e quando l'acqua comincia a bollire, immergerli in acqua bollente. Tagliare i petti di pollo a pezzettini della misura preferita. Mano mano aggiungere anche quelli nella pentola, insieme alle foglie di cavolo. Quando sia la verdura, che il pollo cominciano a cucinarsi, versare del miso dalla busta e mescolare.
La zuppa è praticamente fatta. 












Come dice Taichiro, le donne giapponesi posso cucinare questo piatto in qualsiasi momento della giornata e poi servirlo alla propria famiglia, perchè è molto veloce e semplice. E' un piatto tipicamente invernale, nutre e riscalda e alcuni alternano la carne di pollo a quella di manzo, vitello e maiale. Tutte le varianti sono ben accette.

Abbiamo sorbito del tè verde di riso e del vino bianco, ognuno ha succhiato, come nella tradizione giapponese, la sua zuppa dalla ciotola e ha gustato il tutto servendosi delle bacchette. Una serata che mi dava di surreale, una piccola sintesi di diverse culture, strette al tavolo della cucina di casa propria. Cosa si potrebbe desiderare di più? Nulla. Solo che accadano più spesso.
Adesso, con i rifornimenti che ho di cibo giapponese, andrò avanti un bel po' e ho già pronta un'altra ricetta, che Taichiro mi ha spiegato davanti ai fornelli.
Itadakimasu!

Smashing Pumpkins - Adore

Nonostante non abbia inserito questo disco nella classifica dei dieci dischi che hanno influenzato la mia vita, come per molti altri, gli renderò giustizia dedicandogli un intero post.
Si tratta di un disco del quale conservo un ricordo piuttosto controverso. Quando 'Adore' uscì nel 1998, si parlò subito di 'delusione'. Questo perchè gli Smashing Pumpkins, fino ad allora, erano conosciuti come una band hard rock e perchè Adore aveva l'ingrato compito di seguire il precedente disco e capolavoro 'Mellon Collie and the Infinite Sadness'. Nonostante io abbia adorato quest'ultimo, non ho potuto evitare di lasciarmi travolgere da Adore e dalle sue inaspettate atmosfere, per i canoni degli Smashing.

Se Mellon Collie era un disco rabbioso, pesante, ribelle tanto da rasentare la perdizione di se stessi, Adore è un disco oscuro, cupo e velatamente malinconico. Adore è la sintesi del classico e maledetto connubio 'amore e morte', già magnificamente rappresentato dalla donna in copertina; ovviamente una copertina nera. Un disco lungo e sofferto, che segue quasi un unico filo conduttore: il dolore.
La prima canzone 'To Sheila' è quella che trovo più avulsa dal resto. Nonostante abbia un'intima sonorità davvero raffinata, si discosta da tutto e mi ricorda piuttosto una sorta di intro, ma soprattutto la metrica e le liriche sofisticate mi ricordano più una poesia e quanto sia talentuoso Billy Corgan nello scrivere i testi delle sue canzoni.
'Ava Adore' è un piccolo capolavoro rock. Un misto tra l'amore morboso e il masochismo, una rabbiosa dedica ad un amore macabro, bruciante, distruttivo. La carica di questo pezzo richiama i brani di Mellon Collie, rammenta quanto siano stati grandi i fasti dell'era hard rock della band; un po' come svelare un segreto, aprire per un attimo uno scrigno e mostrare come sia facile per Corgan creare una potentissima hit. Questa è la canzone del disco alla quale non riesco mai a rinunciare, non mi stanca mai, non riesco mai a saltarla, mi trascina, mi esplode in corpo come una bomba.
Quel passo che fa:

                        'and I'll pull your crooked teeth
                        you'll be perfect just like me
                        you'll be a lover in my bed
                        and a gun to my head'

racchiude alcuni dei versi più dirompenti del rock anni 90 e non si può dimeticare nemmeno il video, in cui un Corgan in versione Nosferatu, lacrima sangue da un paio di occhi pesti perfettamente intonati alla sua scura veste e al pallore mortale della sua pelle.
Se 'Ava Adore' è il culmine del suono, dove le chitarre spaccano gli argini dell'indifferenza, 'Perfect' credo che  sia proprio il suo opposto. Nonostante sia stata una hit da radio, passata e ripassata, è forse una delle canzoni che trovo meno interessanti e più distanti in assoluto da ciò che è la mia idea di Smashing Pumpkins.
Con 'Daphe descends', proprio come annuncia il titolo, si comincia a scendere, a calarsi nell'atmosfera intima, ombrosa e nera del dolore e della rabbia di Corgan, una delle tante canzoni d'amore del disco. Mentre la successiva 'Once upon a time', liberamente ispirata alla madre scomparsa in quel periodo, fa riaffiorare i rimorsi del cantautore nei confronti della vita, anche se la musica che Corgan ha messo sopra quelle parole sembra velatamente country. Così come lo è 'The tale of dusty and Pistol Pete'. Nel cuore del disco si collocano 'Tear', una struggente storia di morte e 'Crestfallen', una straziante storia d'amore respinto e con loro si compie il connubio.
Dopo l'inframezzo confusionario di 'Appels +Oranjes', arriva 'Pug', il cui inizio incalzante e spaventoso, accompagnato da chitarre stridenti mi riporta la forza dell'hard rock più cupo di 'Ava adore' e me la fa apparire come un suo gemello zombie.
La parte conclusiva del disco raggiunge apici di tristezza, pessimismo e di profondi abissi del dolore che sento risalire dalle corde vocali di Billy soprattutto in 'Annie-Dog' e in 'Behold!The Nightmare'.
Un lavoro post-capolavoro, che sembra una sorta di giudizio universale per gli Smashing Pumpkins, che da quel punto in avanti subiranno più critiche negative, che apprezzamenti. Io non ci ho mai fatto caso alle critiche, finchè i testi di Corgan saranno così intensi, così sofferti e finchè la sua rabbia, grazie a quella strana magia dell'inchiostro invisibile, si trasformerà in musica, non smetterò di ascoltarli.

venerdì 11 novembre 2011

Sergej Esenin - il poeta disilluso

Del grande, boicottato, distrutto poeta Sergej Esenin mi ha sempre affascinato il modo in cui morì.
Si dice di lui che si impiccò nella stanza dell'hotel Angleterre di Pietroburgo nel dicembre del 1927, dopo aver scritto una poesia di commiato con il proprio sangue, poichè mancava inchiostro in albergo, intitolata 'Arrivederci, amico, arrivederci'.
Ovviamente questo l'ho creduto quando, a 16 anni, rimanevo affascinata dal tragico destino che accomunava molti straordinari poeti russi. 

Poi ricordo come la mia prima insegnante madrelingua di russo del liceo, avesse beffardamente alluso ad un complotto escogitato dalla polizia politica contro Esenin; il poeta contadino, che diede origine alla corrente imaginista,  che aveva lasciato la campagna per la città e della quale era rimasto amaramente scottato. L'alcool e le donne, una su tutte la ballerina Isadora Duncan, logorarono il poeta 'teppista' - in russo chuligan - che in un ultimo grido di dolore scrive:

                                 Arrivederci, amico, arrivederci
                                 O vecchio mio, tu mi sei nel cuore.
                                 Questa separazione destinata
                                 Un incontro promette in futuro.

                                 Arrivederci amico, senza parole e gesti,
                                 Nè tristezza e aggrottar di sopracciglia.
                                 Non è nuovo morire, in questa vita,
                                 Mi più nuovo non è di certo vivere.

Mi sono arrovellata le meningi per tanto tempo su quest'ultimo verso. Per anni mi è sembrato uno scioglilingua, un indovinello, un ultimo messaggio in codice del poeta che cercava un suo posto nella nuova società sovietica, una società che a quel tempo vedeva 'i treni di ferro sorpassare le oche nelle campagne' - tanto per parafrasare uno dei pensieri dell'autore stesso - e che ha tirato il collo a un'intera generazione di illusi, disilludendoli.
Impossibile rimanere intoccati dalla figura stravagante e lacerata di questo poeta nato il 4 ottobre del 1895 a Kostantinovo, a pochi chilometri da Kazan'. Lo stesso Majakovskij, colpito dalla sorte così folgorante di Esenin parafrasò quell'ultimo verso in una sua poesia postuma alla morte del poeta.

giovedì 10 novembre 2011

Borsch, una ricetta russo-ucraina

In un paese dove i frutti della terra sopravvivono a condizioni climatiche impervie per gran parte dell'anno, il popolo russo si è nutrito per secoli di verdure e ortaggi che all'occhio di un abitante del bacino del mediterraneo sembrano quantomai bizzarri. Mi capita di rado di trovare qualcuno che sia particolarmente appassionato di barbabietole e cavoli. Forse perchè siamo abituati a vederli nelle loro forme più anonime; solitamente interi, oppure imprigionati dalla plastica. La barbabietola poi, in alcuni, provoca addirittura ribrezzo, forse perchè rassomiglia ad un organo umano non meglio identificato e perde quel suo liquido violaceo, quasi simile al colore del sangue.
Eppure pensate che la Russia e l'Ucraina si contendono da sempre il primato per l'originalità di una ricetta per una zuppa chiamata borsch, proprio a base di barbabietole e cavoli. Durante la mia lunga frequentazione della cultura russa, ne ho viste di ogni genere, ho assaggiato mille varianti e se l'una si vantava di essere la pura zuppa di borsch, quella successiva si fregiava del titolo di zuppa originale rispetto all'altra. Bisogna dare atto all'Ucraina per aver esportato questo piatto. Com'è noto gli ucraini sono famosi per essere dei bravi cuochi e di avere una particolare predisposizione per l'arte culinaria.
Il primo borsch che ho visto nella mia vita è stato su una fotografia di un libro di cucina, che ho vinto ad una gara organizzata dalla mia prima prof di russo del liceo.
Poi ho cominciato ad assaggiarlo nelle case dei russi. Ne ho viste di tutti i 'colori', anche se quello principale rimane il rosso. Ho mangiato quelli a base solo di vegetali, poi ho scoperto che c'era chi aggiungeva della carne. C'è chi aggiunge quella di maiale e chi quella di pollo. C'è chi la rende più liquida e chi più sostanziosa. Essendo un piatto tipicamente invernale, è molto ricco di minerali e ha un vero e proprio potere di riempire, concentrando quanto più possibile in un'unica portata.
C'è chi aggiunge pezzi d'aglio e chi invece usa solo la cipolla, c'è chi usa entrambe le cose e tutti hanno in comune le barbabietole, le foglie di alloro e soprattutto la cosiddetta smetana o panna acida, da aggiungere alla fine, come una sorta di nostro parmigiano.
Oltre che nelle case dei russi che ho frequentato nella mia prima giovinezza, ho trovato il borsch in decine di libri di letteratura russa. Mi è sempre piaciuto assaporare quel gusto un po' acidulo delle barbabietole e dei cavoli bolliti, pensare che, in tempi duri, questo sia stato il piatto simbolo del popolo sovietico e che grazie a questa zuppa bollente, i russi si siano scaldati sorbendo questo povero, ma 'ricchissimo' piatto e che migliaia di donne russe sia siano sbizzarrite a crearne le varianti più fantasiose.
Ho ritrovato ogni volta un po' dell'animo russo in questo piatto. Così bizzarro, così stucchevole, per niente 'sobrio' e incurante dell'eleganza, eppure così vivace, così profondo, così corposo, così vitale, così malinconico, così contrastato...

Per chi sia interessato a provare a cucinarlo, ho scelto una delle ricette che mi è parsa più facile e che anch'io ho provato a fare:

Ukrainskij Borsch (zuppa di barbabietole e cavolo all'Ucraina)
- per 6/7 persone

- 500g Barbabietole crude sbucciate e grattuggiate
- 3 omodori senza pelle e semi
- 1 cipolla bianca tritata
- 2 spicchi d'aglio tritati
- 1 cuore di sedano tritato
- 1 carota piccola tritata
- zucchero
- 1/4 aceto di vino rosso
- 2 cucchiaini di sale
- 1 litro e mezzo di brodo di carne
- 400g di patate sbucciate e tagliate a pezzi
- 400g di cavolo tagliato a fette
- 500g di manzo bollito tagliato a pezzi
- 2 cucchiai di prezzemolo tritato
- 1/4 di litro di panna acida

In una pentola fare sciogliere il burro, aggiungere la cipolla tritata finemente e l'aglio. Fare imbiondire a fuoco lento, poi aggiungere le barbabietole grattuggiate, il cuore di sedano, metà dei pomodori, una presa di zucchero, l'aceto, il sale e un bicchiere e mezzo di brodo. Fate cuocere a fuoco moderato per 30 minuti circa. Nel frattempo fare bollire il rimanente brodo con le patate ed il cavolo per una ventina di minuti. Le patate devono essere cotte, ma non sfatte. A questo punto aggiungere la carne a pezzi, il resto dei pomodori e le verdure (cavolo). Lasciare sobbollire per 10 minuti. Assaggiare per controllare se è sufficientemente salato, travasare in una zuppiera riscaldata e servire con la panna acida a parte.

Prijatnogo appetita!!!

Evanescence - il nuovo disco degli Evanescence

In questo periodo dell'anno, buio e misterioso, mentre i cieli di novembre si fanno sempre più nebbiosi, le zucche e i gatti i neri hanno circolato parecchio, si fanno avanti alla radio, dopo 5 anni di assenza, gli Evanescence con un nuovo disco omonimo annunciato fin da giugno di quest'anno. E' un disco omonimo, che ripropone le tipiche sonorità di questa band new-gothic dell'Arkansas.
Il primo singolo è 'What you want', che personalmente trovo piuttosto debole rispetto alle grandi prime hit del passato come 'Bring me to life' e 'Going under'. Ovviamente non intendo debole da un punto di vista sonoro, la carica e la potenza che esprimono le canzoni degli Evanescence sono sempre massime, ma trovo che la canzone in sè sia meno cantabile e 'ricordabile' delle precedenti citate.
Un disco estremamente energetico, dove si alternano momenti puramente 'evanescenti' come 'My heart is broken', 'Made of stone' e 'Oceans' a tipiche ballate come 'Lost in paradise', dove la voce di Amy Lee sovrasta il solito clamore della musica supersonica della band.
Se penso all'effetto bomba che questa band aveva suscitato con il primo album, mi sento leggermente all'asciutto di sorprese, tuttavia, probabilmente il marchio di fabbrica di questa band ha nella potenza vocale di Amy e nei power chords delle chitarre la sua piena realizzazione. Un disco che, come una squadra vincente, non ha voluto cambiare i propri addendi e che, per questo, rischia di diventare un po' autoreferenziale. Ma di certo i fans più accaniti si trovano perfettamente soddisfatti dal risultato di 5 anni di fatiche.
Intanto nelle serate di questo pieno novembre, lascio suonare questo disco nella mia macchina e immagino le distese dell'Arkansas squarciate dalle corde vocali tiratissime di Amy Lee e mi figuro gotiche immagini di loschi individui, castelli dalle porte cigolanti abbarbicati su colline in lontananza, mentre imperversa un pittoresco temporale di fulmini e saette.

martedì 1 novembre 2011

Halloween day

Voglio svelare una mia debolezza: adoro la notte di Halloween e questa festa.
Lo so, è una festa commerciale, importata dagli Stati Uniti come molte altre cose effimere e non appartiene nemmeno alla nostra cultura da un punto di vista religioso.
A quanto dicono alcune fonti, questa festa trae le proprie origini dal 1600, in piena era di Riforma Protestante nell'allora territorio britannico e si hanno tracce di celebrazioni di questa festa, fin dal Medio Evo, in altri paesi come la Scozia e l'Irlanda. Dunque, additiamo sempre gli Stati Uniti come colpevoli di averci contagiato con questa festa, ma in realtà la colpa è da distribuire tra vari iniziatori.
Comunque, lasciatemi dire che la mia attrazione per questa notte delle streghe ha una semplice ragione estetica.
Innanzi tutto i colori, mi piacciono i colori di Halloween che si abbinano con le sfumature dell'autunno. Il richiamo alle foglie aranciate, il contrasto con il cielo ormai già scuro, che si fa sempre più novembrino e la gialla luna che pasce nel cielo, come l'occhio beffardamente inquietante di una zucca scolpita.
Di solito compro le zucche dalle forme più strane, mi piace ammirarle appollaiate nel mio cesto di vimini scuro in cucina. Tiro fuori anche quelle di stoffa, che l'anno precedente erano piene di dolcetti, sorrido davanti al mio cappello da fantasmino e spero che salti fuori qualcosa di interessante da fare.
Quest'anno, ho ascoltato, come da tradizione, la prima traccia del disco degli Helloween (con la 'e') 'Beyond the portal' a tutto volume, ho guardato un film horror. Ieri è stata la volta di 'Halloween 4. Il ritorno di Michael  Meyer'. Verso sera ho preparato il mio costumino fatto in casa, per andare ad una piccola festa organizzata da un amico che suonava con il suo gruppo in un locale.
A proposito di questo, vi segnalo il link al sito di questo gruppo che ormai seguo abbastanza regolarmente da quando hanno cominciato a esibirsi in pubblico. Si chiamano RPM e sono rock!