MATRIOSKla

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venerdì 30 settembre 2011

Zemfira

Se vi interessa provare ad ascoltare un po' di musica russa contemporane, vi consiglio di iniziare con una bravissima pop star di nome Zemfira. Nata il 26 agosto del 1976 a Ufa, nella regione russa della Bashchiria, il suo nome di battesimo è Zemfira Talgatovna Ramazanova ed è un vero e proprio talento musicale. E' autrice e interprete delle proprie canzoni ed ha pubblicato il suo primo album omonimo 'Zemfira', nel 1999. Ad esso è seguito 'Prosti menja maja ljubov', che è stato un successo di vendite incredibile con un milione e mezzo di copie vendute in tutta la Russia e dal quale vi consiglio di cominciare. Un disco che non potrà lasciarvi indifferenti nonostante la difficile decifrazione della lingua russa, perchè le melodie orecchiabili e l'impatto musicale sono tratti che travalicano il suono delle parole, per noi occidentali, così insolito.
Di questo disco, quasi tutti i brani sono stati dei grandissimi successi, primo fra tutti la canzone che dà il titolo all'album, ma anche la rockettara Iskala e le potentissime Sozrela e Nenavizhu, bellissimi i brani più lenti come Sigarety e Chocesh. Insomma un disco fortissimo, quel tipo di dischi che crea l'imbarazzo della scelta su quale canzone ascoltare per prima o che suscita una certa ansietà nel passare alla canzone successiva perchè tutte sono fortissime.
Per quanto mi riguarda, la mia 'conoscenza' con Zemfira si è materializzata, come spesso capita per le cose più belle della vita, per puro caso. Mentre mi trovavo a Mosca nell'autunno del 2000, alla radio passò il successo di Zemfira del momento 'Do svidanja' e fu un colpo di fulmine incredibile. Ancora oggi  considero questa canzone, oltre che un ricordo preziosissimo per il mio lungo soggiorno sabbatico di 24enne, una delle canzoni più belle in assoluto di questa talentuosa cantante. Ascoltatela!

giovedì 29 settembre 2011

Il Sole Ingannatore

Se il grande, immenso, straordinario Nikita Michalkov aveva intenzione di girare un film sul più grande orrore che la Russia sovietica abbia mai visto, penso che con questa sublime pellicola ci sia riuscito in un modo semplicemente geniale.
Non credo si possa completamente essere in grado di seguire, capire e apprezzare la storia che Michalkov racconta, senza sapere abbastanza della storia russa contemporanea e di tutti i suoi piccoli, personali e umani risvolti di cui essa stessa sia stata testimone.
L'intenzione narrativa di questo film sembra orientata verso una corrente contraria al solito gesto cinematografico di raccontare i fatti della storia. Qui, infatti, si ha l'impressione che siano i fatti storici e fermarsi ad osservare le tragedie degli uomini che la storia del mondo si fermasse e si mettesse a guardare se stessa davanti ad uno specchio.
Il colonnello Kotov, eroe della Seconda Guerra Mondiale, interpretato dallo stesso magistrale Mikalchov, si trova nella sua dacia di campagna insieme alla moglie Marusja e alla piccola figlia Nadja per trascorrere una tranquilla giornata con il resto della sua famiglia e godersi tutto il calore familiare, giusta ricompensa per le sue immense fatiche. La ricomparsa inaspettata di Mitja in quello stesso giorno, però, suscita scompiglio e imbarazzo perchè insieme a lui riaffiorano dolorosi fantasmi del passato. Tutto, con l'incedere del film, si ricompone. Mitja, interpretato da un sempre magnifico Oleg Menshikov, era l'uomo destinato a Marusja fin dalla loro prima giovinezza e quando, con lo scoppiare della guerra, Mitja viene allontanato dalla famiglia il loro amore si interrompe e Marusja tenta di tagliarsi le vene. Ora che sono passati parecchi anni, i segni sui polsi di Marusja e in seno alla famiglia stessa sembrano rimarginati e un comodo equilibrio sembra essere stato ristabilito. Ma Mitja, che ormai fa parte della polizia politica, è tornato per distruggere tutto ciò che gli è stato portato via. Per una assurda e quantomai sospettosa coincidenza del destino, ora, l'incarico di Mitja è quello di arrestare e riportare con la forza proprio il colonnello Kotov.
Solo la storia saprà- ed insieme ad essa tutti i suoi posteri - quale sarà il destino terribile che attenderà a Mosca l'eroe della Grande Guerra Patriottica Kotov. 
Quell'equilibrio che sembrava conquistato con l'amore e la fedeltà per la propria patria da Kotov, quella fede cieca nell'avvenire della terra sovietica viene distrutta dall'arrivo della nuova politica del terrore operata da Stalin attraverso tutti i suoi uomini.
Kotov, il 'cieco della Rivoluzione' è soltanto uno dei tanti abbagliati da quello che Michalkov chiama struggentemente 'il sole ingannatore'. Dopo aver letto di tutto sulla follia ossessiva di Stalin e della paura che intrappolava li popolo russo dentro casa propria, non ho potuto far altro che adorare tristemente le sottigliezze poetiche di questo film. In particolar modo, ho condiviso i diversi tipi di dolore che catturano i due principali protagonisti della storia e il oro diversi, e tuttavia uguali, destini inflitti e autoinflitti. E' struggente la scena in cui i due uomini sono in piedi, uno di fronte all'altro, sulle scale della dacia e Kotov tiene serrate le orecchie della ongara figlia Nadja, mentre apprende da Mitja di dover recarsi a Mosca. Altrettanto struggente è il motivo che Nadja continua a canticchiare per l'intero film. Si tratta di un vecchio tango, che in un certo senso lascia riaffiorare la malinconia dei tempi andati, di cui sono un commovente ricordo anche quei dolci e preziosi personaggi 'pre-rivoluzionari' interpretati dallo zio e dalle due nonne. Esso è anche il motivo musicale iniziale del film stesso. Un tango che in russo si chiama proprio 'Utomlyonnie solnze', cioè abbagliati dal sole.
Anche gli sguardi distrutti scambiati dai due ex-innamorati Mitya e Marusja sono struggenti, eppure ad una prima ignara visione credo che questo film risulti di una delicatezza inaudita.
Insomma, comunque lo vogliate interpretare, questo capolavoro della cinematografia russa - tra l'altro premiato con un Leone d'oro come miglior film straniero nel 1994 - non vi lascerà di certo indifferente. Una pagina non dimenticata nella storia degli uomini che hanno vissuto i terribili tempi di Stalin.

mercoledì 28 settembre 2011

Crimea: al confine tra Urss, Russia e Ucraina

La Crimea è l'esempio perfetto della persistenza della memoria: il passato che non passa, uno spazio fuori della percezione temporale e dalle leggi della fisica, come quella scena de 'Il Maestro e Margherita' di Bulgakov in cui Lichodeev si ritrova privo di coscienza sulle coste della località balneare di Yalta, sbalzato fuori da una Mosca in subbuglio per via dell'arrivo del diavolo, teletrasportato nel tempo e nello spazio come per magia.

La Crimea oggi è uno spazio che geopoliticamente appartiene all'Ucraina, il suo nome ufficiale è Repubblica autonoma di Crimea, ha un suo parlamento e una sua capitale, Sinferopol, che prende ordini dal Kiev.
Quando nel 1954 Nikita Chrushov, segretario del PCUS regalò la Crime all'Ucraina, lo fece come gesto simbolico, poichè l'Ucraina faceva comunque parte dell'Unione Sovietica. Nessuno in quello spazio temporale che pareva non dovesse finire mai e che con esso non sarebbe mai finita la super potenza sovietica, poteva immaginare che a distanza di 50 anni la Crimea sarebbe rimasta terra si contesa tra l'erede Russia e la damigella Ucraina.
La Crimea è una pietra preziosa legata alla costa meridionale dell'Ucraina per mezzo del sottile istmo di Perekop. Immersa nelle calde acque del Mar Nero, si trova alla stessa latitudine del Sud della Francia. Incantevole e rigogliosa, con una costa segnata da curve sinuose e scogliere luccicanti, era un avamposto strategico per la flotta navale sovietica, meta di villeggiatura prima per gli zar, poi per tutto il Politbjuro.
Quando, ai tempi del comunismo, le ferie erano pagate dal datore di lavoro e si andava tutti in vacanza nello stesso posto, le 'stazioni balneari' situate nei pressi di città marittime come Fedosija, Massondra e Yalta pullulavano di sanatori statali, aree termali e centri di assistenza sanitaria gratuita.
I vigneti di Massondra erano la cantina vinicola che produceva lo champagne color rubino per lo zar. Yalta e Foros, baciate dal sole, erano cariche di frutteti e campi di grano dorati.
Inoltre la Crimea, benedetta da un clima mite tutto l'anno, a differenza della Russia - il cui permafrost si estende per tutto quel quinto di territorio che va al di là del Circolo Polare Artico - non vede mai i suoi porti gelare. Quando a febbraio a Mosca si raggiungono anche i 12 gradi sotto zero, a Yalta ce ne sono 6.
Quando sono nate le repubbliche indipendenti, a seguito della caduta dell'Urss, la Crimea con tutte le sue basi militari navali diventò territorio ucraino. Ma la Russia aveva e ancora oggi ha un asso nella manica.
L'Ucraina, infatti, ha nei confronti della Russia un assoluto bisogno di gas e petrolio e un debito che ammonta a circa un miliardo di dollari. Ad oggi, con l'arrivo del potere del presidente ucraino filorusso Viktor Yanukovic, i due paesi hanno raggiunto un pacifico accordo: la flotta russa ormeggiata nelle acque del Mar Nero al largo delle coste della Crimea rimarrà di stanza fino ad almeno al 2017. Alcuni dicono che l'Ucraina sarà e rimarrà sempre attanagliata dal giogo russo fino a quando persisterà il debito. Altri sostengono che la flotta russa rimane un orgoglio d'identità russa e un retaggio della vecchia marina sovietica, così come lo è per certi versi l'intera Crimea. Ad oggi il bunker militare segretissimo in tempo di guerra fredda apre le sue pesanti porte di titanio addirittura al turismo e permette ai visitatori di entrare per vedere l'intera flotta ormeggiata.
Insomma, questa Crimea più che una penisola nel Mar Nero sembra un'àncora gettata negli abissi del tempo. Sebastopoli, che per molti anni dell'era sovietica era una città nella quale era proibito entrare senza permesso, rimane una città di eroi, fitta di cimeli di guerra, di monumenti commemorativi e nel 1945 le fu assegnato l'Ordine di Lenin e il titolo di città degli eroi per aver resistito per 245 giorni all'assedio tedesco durante la Seconda Guerra Mondiale.
Ma non è tutto, la storia della Crimea insegna che nessun luogo resta a lungo nelle stesse mani. Nella sua storia, la penisola è stata conquistata da un'altra popolazione ad oggi ancora presente, quella dei Tatari, e che rivendica i propri  diritti alla sua terra da quando nel 1989 Michail Grobaciov autorizzò i tatari a tornare in Crimea.
Molti vivono ormai confinato in baracche abusive tra Simferopol e Bakhcisaraj in attesa di riacquistare i loro antichi territorio. I tatari si dichiarano filoucraini, più per via della vecchia abitudine all'odio nei confronti del regime sovietico, che non per reali motivi. Ma qui la Russia sopravvive anche nelle  parole, il russo è la lingua franca usata nella maggior parte delle scuole e nelle amministrazioni pubbliche. La gente dimenticata in questo lembo di estremo sud di terra russo-ucraina vive ancora dei residui della vecchia Unione Sovietica e ama ricordare i fasti e gli onori della marina sovietica. Ancora appollaiata negli edifici in stile bunker di cemento armato, osserva le carcasse arrugginite delle navi di guerra russe ferme nel porto, sui cancelli del parco Primorskij si trovavo ancora le effigi della falce e martello, il carattere degli abitanti del posto è brusco e poco incline al turismo e si porta dietro un'attitudine scontrosa come peggiore reliquia ereditata dall'Urss. Forse la storia e la politica avranno il potere di dividere la Crimea dall'Unione Sovietica, ma sradicare i retaggi dell'Unione Sovietica dalla Crimea sembra un processo ancora molto lontano.

martedì 27 settembre 2011

Lichachev Dimitri - La mia Russia

Vi segnalo questo libro di ricordi autobiografici della vita dell'autore. Il libro ha un titolo meraviglioso 'La mia Russia' e non nascondo che da grande appassionata di Russia, avrei sempre voluto scrivere un romanzo con lo stesso nome. Forse un giorno ce la farò anch'io a raccogliere i miei ricordi e a parlarne come se fossero storia? D'altronde, la mia prima visita in Russia risale all'ormai lontano 1994 e a quel tempo si era ancora in clima di post Perestrojka. Ma questa era ed è tutta un'altra storia rispetto a quella rievocata da Dmitri Sergeevic Lichacev, nato a Leningrado nel 1906 e morto nel 1999.
La sua Russia è unica nei suoi ricordi, ma anche molto simile a quella di tanti russi contemporanei, ai quali è capitato di vivere una sorte simile all'autore. Quella di una Russia in pieno bolscevismo, in pieno stalinismo e in pieno clima di purghe e deportazioni. La parte più sostanziosa di questi ricordi è dedicata al periodo trascorso alle Solovki, in seguito alla deportazione per motivi politici e il finale ha interi capitoli dedicati a personaggi letterari ai quali l'autore ha voluto rendere memoria e omaggio.
Una lettura velata di malinconia e forse anche di molta amarezza, dato che il corso della storia russo-sovietica ha cambiato i connotati di vite illustri e meno illustri e di un popolo che ha fatto i conti con 70 anni di repressione e dittatura. Sono d'accordo sul fatto che, molti dei libri scritti sul tema delle deportazioni ordinate ad opera di Stalin debbano avere un preciso scopo di 'autoconservazione' e che sebbene siano ricordi difficili da conservare, portino con sè, pur sempre, il segno di vite vissute nel bene e nel male.

Caccia a ottobre rosso

Il comandante della marina sovietica Marko Ramius, interpretato da uno strepitoso Sean Connery, sta guidando il suo sottomarino nucleare a propulsione silenziosa 'Ottobre Rosso' verso una rotta sconosciuta.
Insieme al primo ufficiale Vassili Borodin, fedele braccio destro del comandante, Ramius custodisce un  segreto che sarà fatale a tutta la marina militare sovietica e a tutto il Politbjuro, che nell'imbarazzo generale, si vedrà costretto ad avvisare il governo degli Stati Uniti per trovare l'Ottobre Rosso e riportarlo in Unione Sovietica.

Si scatena così una caccia furibonda nelle gelide acque dell'atlantico per congiurare il pericolo di una guerra nucleare. Poderosa trama, tratta dall'omonimo romanzo del maestro dello spy-thriller Tom Clancy e credibili interpretazioni di illustri nomi come Sam Neil e Alec Baldwin, quest'ultimo analista esperto di sottomarini nucleari protagonista di una delle scene più belle del film. Quando, infatti, Jack Ryan si troverà costretto a portare a bordo dell'Ottobre Rosso una comunicazione di vitale importanza per tutto l'equipaggio, l'unico modo per poterlo fare sarà saltare giù da un elicottero sul dorso del sottomarino nel bel mezzo dell'oceano in tempesta.
Ricordo una delle più divertenti battute che nel tempo ho fatto mia, ogni qual volta mi trovassi in una situazione difficile e grottesca: 'La prossima volta che ti viene un'idea, scrivila e basta.' e' questo ciò che dice a se stesso Jack ryan prima di saltare dall'elicottero in volo sopra il sottomarino russo e finire in mare.
E' quasi toccante, invece, il momento in cui tutto l'equipaggio, fiero della propria missione, intona l'inno sovietico ed è elettrizzante la scena della sparatoria, quando a bordo si scopre che c'è un sabotatore.
E' commovente il momento in cui l'ufficiale Borodin, ferito a morte, saluta per sempre il suo sogno di possedere un ranch nel Montana.
In un inseguimento mozzafiato tra i Canyon degli abissi a largo di Terranova, Ramius mette in mostra tutta la sua maestria di pilota di sommergibili per poi finire sconfitto solo a metà. in un classico finale dove gli americani. come sempre sono i più buoni e i sovietici i cattivi e gli 'sfigati'. La vera vittoria di Ramius, infatti, è la fuga sul sottomarino, venuto in soccorso, che lo porterà al largo delle coste del Maine e in salvo sul territorio americano, per chiedere asilo politico.
Per una volta, devo dire che il film ha superato il romanzo, che al contrario è molto più complesso e molto meno romantico e certamente molto meno attento ai dettagli.

venerdì 23 settembre 2011

La casa Russia

In questo film c'è tutta la mia Russia e ad esso sono indissolubilmente legata. Conosco la colonna sonora, i precisi posti dove è stato girato sia a Mosca che a Leningrado e in essi mi sono recata decine di volte durante i miei viaggi. So a memoria quasi tutte le battute del film e adoro l'interpretazione degli attori: Sean Connery, Michelle Pfeiffer e Klaus Maria Brandauer.
Dopo aver contato fino alla venticinquesima volta, ho smesso di contare tutte le volte che l'avrò visto.
Nei freddi pomeriggi d'inverno del 1992, dopo la scuola, inserivo la VHS nel videoregistratore e con in mano una tazza di tè bollente, cominciavo a sognare.
Ho visto questo film per la prima volta nell'autunno del 1991, non sapevo ancora che esso era l'adattamento cinematografico del grande regista Fred Schepisi, da un romanzo best seller dell'altrettanto grande John Le Carrè.
All'epoca non sapevo nemmeno che cosa fosse davvero la Russia. Non c'ero ancora stata e quindi proprio grazie alla magnifica fotografia di questo film cominciavo a sognare una mia Mosca: l'immensa Piazza Rossa, immagine sulla quale si apre il film, i magazzini generali del Gum, dove Barley e Katja si recano insieme al loro primo incontro, l'hotel Moskva dal quale in lontananza si intravede la basilica di San Basilio con le sue guglie colorate, il parco Cholomenskoe, ma anche gli interni degli edifici dai soffitti bassi, la tappezzeria opprimente e la moquette rialzata dei corridoi degli alberghi, il lampadari di cristallo , la tavola apparecchiata con tante bottiglie senza etichetta nella dacia al villaggio degli scrittori di Peredelkino e le splendide stazioni della metropolitana più stupefacente del mondo...e questo solo per citare alcune delle cose che si possono ammirare di Mosca, in questo film.
Ogni singolo posto, ogni parola, ogni battuta sono un rimando poetico alla immensa cultura russa. E' da qui che ho attinto per individuare le prime grandi opere letterarie, che sono poi andata a cercarmi in biblioteca e a leggere. Una su tutte, le opere di Boris Pasternak. Quando Barley e Dante si parlano al cimitero degli scrittori di Peredelkino e si promettono fedeltà, Barley chiede a Dante: 'Dante, amico, sei venuto a porgere i tuoi saluti al vecchio Pasternak?' e io allora mi domandavo 'chi sarà questo Pasternak?' e poi correvo a cercare i suoi libri e leggevo le sue poesie durante le ore di  italiano a scuola.
Dante, di contro, recitava versi di un poeta precedente chiamato Pecerin, che io confusi con Peciorin, protagonista di 'Un eroe del nostro tempo' e che quindi mi ritrovai a leggere, quasi per equivoco, e poi scoprii essere un capolavoro del romanticismo russo.

                   'Com'è dolce amare il proprio paese, desiderarne la sconfitta e in quella sconfitta scorgere l'alba della rinascita universale'

Questi erano i versi che Dante recitava a Barley e ai quali si ispirava per trovare la forza di tradire il suo paese e pubblicare il suo romanzo.
E' in questo film che ho visto per la prima volta lo storico Hotel Ucraina, nel quale alloggia Barley e nel quale, prima di partire per Leningrado siede sui propri bagagli, come suggerito da Katja. Così scoprii che, i russi prima di un lungo viaggio si siedono sulle proprie valigie pronte, recitano qualche poesia e poi si mettono in cammino. Con i miei occhi ho visto dal vivo questo momento e mi sono immalinconita ripensando alla mia semplice ingenuità di spettatrice di un film, quando 10 anni dopo, la signora che mi ospitava nell'appartemento del Kutuzovskij Prospekt di Mosca (dove si trova proprio l'hotel Ucraina), si è seduta sui suoi bagagli, ha aspettato un po' e poi si è alzata per partire per Kiev.
Insomma, ho trovato di tutto in questo film, ogni battuta era un piccolo seme che, se raccolto e coltivato, nascondeva immensi cieli di conoscenza.
La colonna sonora di Brandon Marsalis è uno dei dischi più belli che abbia mai comprato e mi ricorda sempre la scena del film in cui Barley, seduto nel vagone ristorante del treno che lo porterà a Leningrado. osserva le dacie della campagna moscovita dal finestrino e sente crescere dentro di sè il suo amore per Katja.
Quelle dacie sono così umili e commoventi come il cuore della sua amata e in quel momento la musica irrompe e la famosa taskà divampa.
Katja è la tipica donna moscovita dell'era sovietica. Avvolta da strati di lana, perseguitata da una vita di stenti, separata dal marito 'come quasi tutte le copie qui a Mosca', che vive in un minuscolo appartamento della periferia, insieme ai suoi due figli e allo zio Matvej.
E' a lei che Barley dedica una delle più romantiche frasi del film, quando intrappolato dalle pareti della piccola cucina di Katja che si dichiara e dice: 'Ti amo...di un amore maturo ed elettrizzante. Tutti i miei fallimenti erano la strada che mi portava a te...Tu sei il mio solo paese, ormai.'
Katja è stata l'amante di Yakov Efemovic Savelev, ovvero Dante e racconta la sua gioventù in Urss. Attraverso lei conosciamo come i giovani russi abbiano vissuto l'invasione dei carri armati nella Praga del 1968, mentre alle sue spalle e alle spalle di Barley risplendono le cupole blu della cattedrale di Zagorsk, appena fuori Mosca; una delle prime mete che si incontrano quando si inizia il classico giro dell'anello d'oro.
Barley giunge a Leningrado e subito si vede la magnificenza della città di PIetro il Grande, i suoi giardini d'estate, il Cavaliere di Bronzo e il cielo plumbeo e infinito sopra la Neva.
Dante aspetta Barley seduto su una panchina dei Campi di Marte e insieme vanno in una silenziosa Piazza del Palazzo d'Inverno. Ancora una volta decine di rimandi storici, letterari e poetici.
Se e quando guarderete questo film, non perdetevi questi particolari. Non credo che Schepisi, nel girare questa pellicola, sia incappato in certi scenari per caso e forse la trama intricatissima del film in sè, che lascio a voi decifrare, era solo un pretesto per mostrare al mondo per la prima volta nella storia sullo schermo la Russia del 1990, la Russia che pochi in occidente avevano già visto così, la Russia che  sarebbe rimasta soltanto per un anno ancora la triste Unione Sovietica.
Ho amato questo film come ho amato la Russia, per molto tempo sono stati per me quasi un'unica cosa.


P.S. Una delle gemelle di Mosca, secondo la mia percezione di decadenza, è Lisbona. Non a caso è la città in cui Barley possiede una delle sue case. I tetti e le terrazze di Lisbona sono un piccolo cammeo perfettamente incastonato nella malinconica atmosfera di questo film. Un piccolo frammento di est Europa, rimasto incastrato in occidente. Gli splendidi scenari panoramici della polverosa città lusitana si accostano chimicamente, nei colori e nei sapori, alla Russia di quei tempi.

giovedì 22 settembre 2011

Osennij Marafon

Uno dei tanti film sovietici che adoro si chiama Osennij Marafon, ossia la maratona d'autunno.
Uno di quei film intrisi di sovietismo fino all'inverosimile, ma che porta con sè anche l'universalità del genere umano a discapito di qualsiasi differenza sociale. Inutile dire che ho imparato molto dell'animo russo anche da questa pellicola e che ho ritrovato preziosissimi particolari della vita russa in vari momenti.

Osennij Marafon è la storia di un professore e traduttore letterario, Andrei Pavlovic, che si ritrova attanagliato dalla terribile necessità di dover scegliere tra una vita tranquilla con la moglie in seno alla sua famiglia o se optare per un cambio totale e andare a vivere con l'amante. A parte donare tutta la mia comprensione al protagonista per l'immenso sforzo operato nel dividersi e dividere la sua vita tra le due donne, ho guardato e riguardato questo film per almeno tre motivi. Il primo è per godere della magnifica vista dell'alba su una Leningrado del 1978 grigia e freddissima, in una delle scene in cui Andrei Pavlovic torna a casa dalla moglie dopo aver trascorso la notte con l'amante. La cupola d'oro di Sant'Isacco è un unghia pittata dall'antico splendore pietrino sullo sfondo di una città divorata dal grigiore cementifero delle costruzioni sovietiche e l'alba che irrora questa mortifera visione è la stessa alba che costituisce il secondo motivo per cui adoro questo film. E' all'alba, infatti, che il professore si incontra con il suo amico danese Bill - con il quale sta tentando di tradurre Dostoevskij- e vestito con calzamaglia e tuta da ginnastica attillata in puro stile anni 70, tutte le mattine, esce a correre per mantenersi in forma. 
E' all'alba che il professore, nell'illusione di scappare dalla rete in cui la sua condizione di eterno indeciso è rimasta impigliata, diventa il maratoneta dell'autunno e l'autunno è lo stesso sfondo su cui si staglia quella meravigliosa tradizione russa riassunta da una tragicomica scena, in cui Bill e il vicino di casa di Andrei, Vassili  Ivanovic, si trovano nel bel mezzo di un tipico bosco russo, con la tipica betulla bianca e solitaria, con indosso scarponi e bastone per andare alla ricerca di funghi. Ed è questo il terzo momento. Non c'è niente di più russo che possa annunciare l'arrivo della stagione autunnale, come una scampagnata nelle piatte e sconfinate lande per cercare i funghi, che le donne e le babushke russe metteranno a marinare sottovetro e riporranno nel doppio fondo delle finestre di città per mantenerli freschi abbastanza da poterci fare ottime zuppe per l'inverno. 
Ci sono tanti altri piccoli motivi per cui questo film, ai miei occhi e forse anche a quelli dei russi stessi, esso sprigioni tutta la sua 'russità'. Uno fra tutti, l'iniziazione alla 'vacanza alcolica' da parte del pestifero vicino di casa nei confronti di Bill. Quando tutti sono seduti al tavolo della cucina di Andrei Pavlovic il primo brindisi è 'alla conoscenza'; cosa alla quale i russi tengono particolarmente ad osservare quando bevono in compagnia e quando c'è un nuovo arrivato.
Dopo il brindisi, il vecchio vicino annusa, in un altro gesto molto russo, una fetta di pane nero per contrastare il sapore stucchevole della vodka, appena ingurgitato in un unico rigoroso sorso. Ma la 'russità' raggiunge il suo culmine con la frase conclusiva della bevuta 'chorosho sidim', una di quelle espressioni della lingua russa quasi non traducibile, con la quale si vuole comunicare la predisposizione del popolo russo a identificare un momento conviviale con il momento di sorbire l'acquetta (come loro la chiamano), ovvero la vodka.
Il verbo 'sidit' significa 'stare seduti', accomodarsi e lasciarsi andare al momento di abbandono e di riposo che susciterà l'alcol.
La colonna sonora di questo film è l'inconfondibile gingle che rimane nella mente, che ossessiona e accompagna gli spostamenti frenetici del protagonista, una marionetta ipnotizzata da queste potenti note e fino all'ultima scena indeciso, incapace, inetto come un sovietico Peciorin di 'Un eroe del nostro tempo', come un tiepido idiota dostoevskijano perso nella nebbia della sua corsa mattutina contro se stesso, contro la lugubre Leningrado e la ripetitività ossessiva della monotonia sovietica di quei tempi andati.

sabato 17 settembre 2011

Fernando Pessoa - Il poeta è un fingitore, ovvero l'inquietudine

Non oso scriver nulla del grande, magnifico, sconfinato poeta e scrittore portoghese Fernando Pessoa, perchè scrivere di lui è come scrivere di Dio - per chi ha fede - o come scrivere del 'perchè l'essere?', che fu il questio parmenideo nel quale si perde il senso della vita  e il suo infinito girare su se stessa.
Oso soltanto dire che Pessoa, il cui cognome è stato una sorta di predestinazione per lui, significa persona, quasi come se egli sia stato tutte le singole persone del mondo e, allo stesso tempo, nessuna.
Ho scoperto Pessoa nel 2002, mentre leggevo a fine turno del mio lavoro in aeroporto e il mio mondo era pieno di persone. L'ho discusso e condiviso con una persona, che nell'apoteosi del surreale - cioè tra la prima e la seconda palla di battuta durante una partita di tennis - mi ha chiesto: 'Ma tu  l'hai capito Pessoa?. Strambo quesito in un altrettanto bizzarro momento, tanto quanto l'assurdità dell'universo pessoiano.
Di lui esiste no scritto potentissimo, profondo quanto l'animo umano, che racchiude la verità più sanguinante e terribile che sia mai stata scritta da un uomo vero e in carne ed ossa (altro che bibbia e vangeli). Si tratta de 'Il libro dell'inquietudine' e già il titolo la dice lunga...
Ovunque voi siate, chiunque voi siate, dovunque andiate, a condizione che abbiate un'anima pura, aprite a caso una pagina di questo fitto zibaldone e troverete un briciolo di voi stessi, come se voi foste una stella nell'universo e quella stella brillerà necessaria e indivisibile dal tutto.
Questa volta non vi lascio le solite informazioni biografiche, perchè talvolta dubito che Fernando Pessoa sia davvero esistito...vi lascio una traccia, una singola frase e se ci cadete dentro come in un abisso, allora questo libro è per voi:

                      'Serata d'estate laffuori, come vorrei essere un altro'

Se poi volete provare con la poesia, scoprirete tutti gli omologhi di questo monumentale poeta. Anche di questa sua arte sublime vi lascio uno spunto:

                      ' Il poeta è un fingitore.
                        Finge così completamente
                        che arriva a fingere che è dolore
                        il dolore che davvero sente.'

venerdì 16 settembre 2011

Taskà....majà Maskvà

Questo potrebbe essere un post infinito e per certi versi lo sarà.

Chi sa già che cosa sia la taskà russa probabilmente si chiederà come si possa parlare di un tale fenomeno che, come tanti sentimenti per lo più viscerali, non è affatto semplice esprimere.
Diciamo che più che spiegare le cause di uno stato d'animo tanto enigmatico, quanto trascinante, si può solo tentare di raccontarne gli effetti.

Quando penso alla Russia, spesso mi attanagliano innumerevoli ricordi del passato, più o meno ciò che molti russi di talune generazioni vivono nel loro paese quando ad esempio esso aveva un altro nome e si chiamava Unione Sovietica; quel paese che offriva la favola politica dello zucchero a buon mercato, della sanità gratuita e delle ferie pagate, tanto per dirne qualcuna.

Toskovat' è un verbo che significa desiderare, rimpiangere e il suo sostantivo toska (si pronunica taskà) indica una malinconia ancora più cupa della semplice nostalgia, al limite della depressione.
Tutta la cultura russa è imbevuta di taskà a partire dalla letteratura.
Anton Checov ha scritto uno dei suoi più profondi e misteriosi racconti intitolato proprio 'Taskà' e nelle 'Tre sorelle', Irina esclama malinconica '...a Mosca!... a Mosca!' e dunque anche quella è taskà.
Quando penso alla Russia, sebbene sia un immenso paese, lo riassumo in un'unica parola: Moskva.
So bene che la Russia è immensa e che parlare solo di Mosca è riduttivo, ma già tutto ciò che ho trovato a Mosca è stato immenso e spesso, desiderando di essere lì quando questo non è possibile, mi prende la taskà.

Mi prende di pomeriggio, quasi sempre inizia in autunno, sul finire di settembre, quando la luce del sole comincia a farsi obliqua e le prime folate di vento non portano più con sè aria calda, ma una leggere brezza.
Allora mi viene voglia di guardare un film russo e spesso la scelta ricade su 'Osennij Marafon', oppure su 'Moskva slezam ne verit', che amo particolarmente perchè pare abbia una sorta di potere taumaturgico, dato che in italiano significa 'Mosca non crede alle lacrime'.
Dunque preparo il mio 'pomeriggio russo' e magari me ne vado al mercatino di cascina Gobba o al negozio russo di Milano, Kalinka e comincio a procacciarmi tutto quello che di russo mi piace mangiare e bere: una birra Baltika numero 3, del caviale rosso, gli immancabili solionnije agurzy, il pane nero, le bustine di calamaro essiccato da accompagnare alla birra e mentre torno dal negozio la sento montare in me questa taskà.
A quel punto vorrei essere a Mosca per sentir parlare russo. Per fortuna, nell'era di Internet, basta un click per trovare Radio Moskva o Govorit Moskva e ascoltare delle voci lontane che entrano dentro casa. Preparo  il mio spuntino, tiro fuori il bicchierino di cristallo pesante con tanto di gambo, acquistato al mercatino di Izmailovskij e comincio con la prima ryumka. Ho già gli occhi lucidi e la taskà alle stelle.
Dopo che il videoregistratore si è inghiottito la mia VHS del film sovietico, mi accomodo sul divano e la taskà sprofonda con me tra i cuscini, quando prima della visione del film si vede il logo della MOS-film, la casa di distribuzione sovietica più famosa di tutte le russie.
Allora taskà è perdere gli occhi nella fatiscente periferia di Mosca costellata di palazzoni bunker identici l'uno all'altro, che aprono le scene di 'Sluzhebnij roman' e ricordare Mosca del 1994 appena uscita dalla prigione sovietica, quella che sono riuscita a vedere in tempo io a soli 18 anni, prima che diventasse una seconda opulente Montecarlo negli anni zero.
Ma taskà è anche aprire le anime morte di Nikolaj Gogol al segno lasciato nel libro letto ai tempi dell'università e immalinconirsi su questo passaggio:


' Russia, Russia! Io ti vedo: dalla mia meravigliosa, stupenda lontananza, io ti vedo. In te io scorgo povertà, disordine e inospitalità; non rallegrano, non atterriscono lo sguardo gli arditi miracoli della matura, coronati dagli arditi miracoli dell'arte.....Non si volta indietro la  testa per guardare i massi di pietra sovrapposti; non risplendono, attraverso i cupi archi gettati l'uno sopra l'altro, ricoperti di viti, di edera e di milioni e milioni di roselline selvatiche, non brillano in lontananza gli eterni contorni dei monti scintillanti, che si levano verso gli argentei, limpidi cieli. Tutto in te è aperto, desolato, uniforme; come punti, come piccoli e appena visibili segni, sorgono le tue città piatte; nulla che attragga, nulla che affascini lo sguardo! Ma quale è dunque questa inspiegabile, segreta forza che attira a te? Perchè si ode riecheggiare senza tregua all'orecchio la tua malinconica canzone, che si diffonde da mare a mare nella tua vastità infinita? Che cosa c'è in essa, in questa canzone? Perchè chiama, e singhiozzando stringe il cuore? Quali suoni baciano dolorosamente l'anima e penetrano in essa, e aleggiano attorno al mio cuore? O terra di Russia! Che vuoi dunque da me? Quale invisibile legame esiste tra noi? Perchè mi guardi così, e perchè tutto ciò che esiste in te mi rivolge lo sguardo colmo di attesa? E perchè, mentre io, pieno di stupore resto immobile, già sul mio capo incombe una nube minacciosa, gravida di pioggia che si avvicina, e il pensiero ammutolisce davanti alla tua vastità senza fine? Forse qui, in te, sorgerà il pensiero dell'infinito, giacchè infinita sei tu stessa? Non potrebbe nascere qui un eroe possente, giacchè c'è spazio sufficiente perchè sorga e si sviluppi e si muova? E minacciosa mi attrae questa possente vastità, riflettendosi con terribile forza nel profondo del mio essere; di un innaturale potere si illuminano i miei occhi...Oh, stupenda, affascinante, sconfinata vastità, ignota al mondo! Oh terra di Russia!'

Taskà è aprire un barattolo di Salyonnie Agurzi e odorare l'aroma pungente dei cetrioli che le babushke coltivano nelle loro dacie e poi vendono ai bordi delle strade di Mosca durante l'inverno per arrotondare la pensione, rischiando il congelamento. La taskà è di un colore rosso porpora come la tinta che assume il borsch russo preparato con la barbabietola, l'aneto e la smetana.
Se poi per caso guardo la mensola della mia libreria di fianco alla scrivania e vedo il 45 giri dell'Inno delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e mi viene voglia di cantarlo, allora so che sono al limite della più turpe taskà! Quando torno indietro nel tempo e ripenso alla madre Russia, immagino la servitù russa appollaiata sulle stufe di maiolica dei libri di Saltykov-Scedrin, quella gente che si riposava dalle fatiche dei lavori nei campi e si ripara dalla metel', il vento che Pushkin reputava solo russo: implacabile e impietoso come le disgrazie dei popoli slavi, quelle forse portavano con sè una gelida taskà.
Ma mi assale quasi come un attacco mortale la taskà della sera, quando penso alle cucine delle kommunalka di Mosca, dove un tempo e chissà forse ancora si recitano i versi di Anna Achmatova, Blok e Pasternak.

E poi ancora, dopo qualche brindisi e le cantate con la chitarra di Vladimir Visozkij, oppure la solita struggente e mai esauribile taskà di Oci Ciornie.
Non c'è fine alla taskà...già il nome trascina con sè una rima infinita, un riverbero che ricorda il mugghio del mare, un'eco che risuona nelle steppe desolate di questo adorato paese delle meraviglie.

mercoledì 14 settembre 2011

Banana Yoshimoto - Delfini

La lettura di uno dei tanti brevi romanzi di questa prolifica scrittrice giapponese rappresenta, per me, una sorta di piccola tradizione estiva. In vacanza leggo molto, arrivo fino ai 6 libri in un paio di settimane e tra questi c'è sempre, immancabilmente almeno un libro di Banana Yoshimoto. Anche lei è sempre molto tradizionale nella sua scrittura. Si ritrovano sempre gli stessi temi ed elementi a lei cari. Primo fra tutti il tema della morte, segue il tema del paranormale e, giusto per rimanere con i piedi in questo mondo, i suoi scritti sono quasi sempre costellati di accenni alla cucina giapponese. Forse in onore di quel suo primo grande successo letterario e di pubblico che fu 'Kitchen', pubblicato ormai 20 anni fa nel 1991.

Non so, dunque, se sia un fatto quasi fisiologico-geografico, ma il mio corpo richiede un assaggio della sua narrativa quando mi trovo in vacanza al mare. Sarà che ci vuole una mente molto rilassata e sgombra per accogliere ed interpretare le strambe ricette letterarie della Yoshimoto. In questo romanzo breve, 'Delfini', si trovano animali imbalsamati nascosti nella soffitta di una casa polverosa a picco su una scogliere, un tempio buddista popolato da donne intente a preparare da mangiare, una sensitiva chiamata Mami, che predice alla protagonista Kumiko di essere incinta e che ha sperimentato quello strano ed enigmatico stato di pre-morte.
Ciò che sempre mi sorprende, o per meglio dire, mi fa rimanere incollata alla lettura è scoprire come tutti questi bizzarri ingredienti si combineranno insieme e con quale usuale maestri didattica la Yoshimoto riuscirà a posizionare ogni tassello della narrazione, di modo che con una mira precisissima la catarsi incomberà sul protagonista dandogli un senso, una pace interiore, un significato e poi riporre tutto in un cassetto segreto della dimenticanza.
Spesso, infatti, risulta assai difficile ricordare e distinguere tutti i personaggi e le trame dei differenti romanzi. E' come se essi potessero idealmente essere tutti eroi di  uno stesso  ed unico romanzo.
Tuttavia trovo che la Yoshimoto abbia un evidente limite nella sua scrittura, cioè l'elemento femminino.
Tutti i romanzi che ho letto finora avevano come protagonista una donna, tutte le problematiche affrontate sono tipicamente femminili e credo che il suo stile possa essere apprezzato meglio da una mente femminile che non da una maschile e che, per di più, si tratti di una scrittura riconoscibilmente femminile. Forse sarà il modo molto personale utilizzato da Banana Yoshimoto di affermare l'elemento 'donna' in una società, quella giapponese, notoriamente maschilista.

venerdì 9 settembre 2011

Leskov Nikolaj - Il viaggiatore incantato

Un libro polveroso, dove si mescolano in un vortice senza soluzione di continuità storie legate l'una all'altra in una picaresca commedia al centro della quale sta Ivan Sever'janyc, schiaffeggiato dal volere di dio. Ivan è un 'figlioo pregato', cioè promesso a dio per quanto è stato desiderato. Ma la sua vita si snoda attraverso le imprese più assurde, in essa entrano i personaggi più svariati: zingari, ladri, prostitute, padroni e mercanti e la morte lo sfiora ogni volta per renderlo più immortale.
Leggendo questo breve romanzo, o meglio, lungo racconto di Nikolaj Leskov scritto nel 1873 si ha la sensazione di assistere ad ogni capitolo ad una nuova avventura ed essa sembra non essere destinata a concludersi mai. Anche la fine, in cui si ritrova Ivan su un battello nei dintorni del lago Ladoga in pellegrinaggio verso le isole Solovki, sembra nascondere l'ennesimo enigma su come davvero andranno a finire le cose.
Mi sono sempre chiesta perchè Leskov abbia chiamato 'incantato' il suo viaggiatore. Forse l'incanto di Ivan è quel sottile, ma resistente filo che lo lega al volere del suo dio, forse è un incantesimo che lo rende immune dal male e lo protegge, forse è una linea che lo guida fino alla fine del mondo. Chi è incantato non ha quasi coscienza e dunque non opera di sua volontà, ma si abbandona al potere misterioso di una sorta di stato di grazia. C'è qualcosa di intenzionalmente mistico nella creazione di questo personaggio, d'altronde il pathos religioso distingue quasi tutta la produzione di Leskov.
Non sono mai stata una grande appassionata dei temi trattati e dello stile linguistico di questo autore, soprattutto perchè ritengo che la sua collocazione storico-letteraria (1831-1895), lo relegano per forza di cose in seconda fila rispetto a grandissimi suoi contemporanei (Gogol, Dostoevskij, Tol'stoj). Ma il suo discostarsi da essi ne costituisce allo stesso tempo motivo di interesse. Un libro da leggere tutto d'un fiato, proprio così come viene raccontato, come se fossimo tutti su quel battello ad ascoltare Ivan.

giovedì 8 settembre 2011

Dan Brown - Il simbolo perduto

Non riesco a dire se i libri di Dan Brown mi piacciano o meno. O meglio, mi piacciono più di altri best sellers e altri film del genere perchè iniziano in maniera avvincente, hanno quasi sempre argomentazioni e ambientazioni credibili ed interessanti, l'unico problema è che arriva un punto in cui è chiaro che l'autore è costretto, probabilmente per motivi di contratto, a produrre il maggior numero di pagine possibili e a procrastinare ad libitum la fine della storia. 
Ho letto 'Il simbolo perduto' in inglese e della scrittura di questo autore ho poco da dire. Decisamente semplice, ma agile e adatta al tipo di lettura di cui si fruisce e alla storia in sè, cioè essenziale. Per quanto riguarda la trama di questo romanzo, l'ho trovata abbastanza semplice da seguire rispetto ad altri (come ad esempio Deception Point) e la figura di Mal'akh è tutto sommato abbastanza curiosa. Avevo un personale interesse nel leggere qualcosa di 'segreto' riguardo all'edificio del campidoglio a Washington D.C., dato che l'ho vista di persona  non molto tempo fa e ovviamente tutte le storie rivelate da Brown riguardo le logge massoniche e tutta la loro simbologia attirano come una calamita, nonostante altrove abbia letto che vi siano spesso errori nelle trasposizioni dell'autore nei suoi romanzi.
Nel complesso un libro che intrattiene e distrae facilmente, al contrario di altri libri di puro divertimento, per lo meno questo cerca di insegnare qualcosa raccontando. Per questo salvo con un sei i romanzi di Dan Brown e penso che continuerò a leggerli, se le storie saranno di mio interesse.

Platonic Sex - Ijima Ai

Se volete leggere qualcosa di davvero trash, dove la parola trash definisce uno stile di vita, una mentalità, uno stereotipo, allora leggete il romanzo best-seller in Giappone di Ijima Ai, pubblicato nel 2001, che racconta la vita di Ai, una ragazza che scappa di casa senza nemmeno portare a termine le scuole medie e inizia la sua vita dissoluta, trascinata dalle solite cattive compagnie.
Sesso, droga, prostituzione, lusso sfrenato, vestiti firmati, amori agognati, bruciati e falliti, Manhattan e il quartiere di Giza a Tokyo sono tutti condensati in queste 229 pagine, che scendono in gola come una bibita gassata e si trasformano in un cocktail micidiale, non appena sfiorano le pareti dello stomaco.
Caratterizzato da una scrittura decisamente superficiale e scabra, non si legge niente che non sia già stato detto o visto in passato in film o romanzi di cui è piena la letteratura scandalosa.
Non aspettatevi la  solita impudicizia e lascivia tipica della società maschilista giapponese, nè la sua notoria propensione alla perversione sessuale.
Tutto è, a mio giudizio, sfiorato e narrato con la più sfacciata naturalezza proprio per sottolineare come la protagonista sia perfettamente a proprio agio nel suo ruolo, come se esso sia stato da sempre il suo destino.
La facilità dei temi e della lettura ne ha fatto l'ennesimo successo nazionale in Giappone, tanto da essere stato anch'esso, come spesso accade, trasposto in film e diretto da Masako Matsuura, una delle più note registe giapponesi.
Come libro, niente di imperdibile, quasi una versione decadente e trash di una Carrie Bradshaw di Sex&the city, ma con molto più squallore e molto meno cervello. Il frutto della nostra modernità.

mercoledì 7 settembre 2011

Great lake swimmers - Ongiara

Quando ho ascoltato per la prima volta questo disco, ho creduto di essere altrove.
Non dov'ero, ma dove mi sarebbe piaciuto essere. Ad esempio, in una foresta, in cammino verso un'impervia meta nel bel mezzo della natura selvaggia. Sarà la natura folk di questo disco, sarà il sound così limpido e sincero, sarà la voce di Tony Dekker femminea e delicata, a metà tra Jeff Buckley e Tom Yorke.
Oppure sarà che sono influenzata dall'origine di questo gruppo canadese di Toronto, che si è scelto un nome tanto cristallino quanto la loro musica: Great lake swimmers. Anche il nome del disco, pubblicato nel 2007, porta con sè una certa curiosità riguardo alla toponomastica legata alle origini geografiche del gruppo. Ongiara, infatti, sarebbe il nome della barca che ha portato la band verso Toronto Island, il posto dove hanno registrato il disco. Ma Ongiara è anche l'antico nome delle cascate del Niagara, che si dice abbia avuto origine dalla locale tribù irochese anche conosciuta con il nome di tribù Ongiara.  
Al primo ascolto si avvia una musica in parte fredda e austera, proprio come un lago calmo, ma minaccioso, che si prepara ad un lungo inverno. Allo stesso modo le prime tre canzoni dell'album: 'Your rocky spine', 'Backstage with modern dancers' e 'Catcher son' sembrano preparare a qualcosa. Tuttavia sono ancora tiepide come il tepore di una baita di legno nascosta in un bosco del nordico Canada. 
Ma poi, tolti i guanti e gli scarponi 'Changing colours' precipita in un letargo ghiacciato simile all'avanzare dell'inverno, così come l'alito ghiacciato del nuovo giorno ricorda il tocco sonnolento di 'There is a light' e 'Put there by the land', la quale, sul finire surriscalda l'ambiente e lascia il passo all'unico momento più caldo, come una tazza di caffè mattutino dopo una gelida notte, in 'I am part of a large family'.

Un disco che evoca atmosfere bucoliche e a tratti ricorda il sound dei Mercury Rev, ma senza la loro proverbiale pomposità. Una musica che, nonostante non chiami in causa la natura direttamente nella sua lirica, sottilmente la rievoca. 'Where in the world are you now', 'Passenger song' e 'I became awake', cioè le ultime tre canzoni concludono in modo soporifero e rassicurante, come una soffice poltrona davanti a un fuoco serale, un disco intimo e malinconico, ampio e lontano come una distesa del misterioso e taciturno nord.

martedì 6 settembre 2011

Quando cadrà la pioggia tornerò - Takuji Ichikawa

Un film, un manga e una fiction hanno consacrato il successo di questo romanzo.
Ma dirò subito che non ho ben capito quale sia la chiave di lettura di questo romanzo pubblicato nel 2003 da Takuji Ichikawa, nè perchè abbia suscitato tale entusiasmo.
La trama è piuttosto irreale. Takumi, un padre, e Yuji suo figlio, rimangono soli dopo che Mio, la dolce moglie e madre, è morta a seguito di una fulminante malattia a soli 28 anni.
Ma la giovane donna promette che quando cadrà la pioggia tornerà. Così, con l'inizio della stagione delle piogge giapponesi in giugno, Mio appare nella foresta priva di ricordi del suo passato e ritroverà Takumi.
Attraverso il racconto di come Takumi e Mio si sono conosciuti e amati, si costruisce tutto il romanzo, dove la realtà si confonde con una onirica irrealtà.
Una favola alla quale non crede nessuno, una vacua sdolcinatezza che non  penetra nell'anima, un vago desiderio di travalicare il confine con la morte riaccendendo il fuoco di un semplice cuore.
Una trama troppo esile e una scrittura gracilissima costituiscono i punti deboli di questo romanzo. Difficilmente mi capita di non comprendere la narrativa giapponese, ma altrettanto raramente capita di imbattersi in una scrittura così poco significativa. Sinceramente mi aspettavo molto di più, ma lascio l'appello in giudizio agli adattamenti su video, magari sapranno entusiasmarmi di più del romanzo.

lunedì 5 settembre 2011

Runner's world magazine

Da quando sono un'appassionata di running cerco di documentarmi il più possibile riguardo a tecniche di allenamento, materiale utile per tenere sotto controllo le mie sessioni e per avere ogni possibile suggerimento riguardo la corsa. Più ci si addentra in una disciplina e più si sente la necessità di conoscerla fin nei suoi particolari, ecco perchè la prima cosa che faccio, di solito, è acquistare libri o riviste specializzate. Per quanto riguarda la corsa, ho scoperto subito Runner's world, una rivista originariamente pubblicata negli Stati Uniti e arrivata fortunatamente anche in Italia, che affronta tutte le diverse tematiche che riguardano questo sport. La compro saltuariamente, ad esempio, quando in copertina viene segnalato un inserto interessante riguardo all'acquisto di scarpe e accessori. Sono sempre incuriosita dalle prime pagine dedicate alle lettere dei lettori e dalle fotografie di gente più o meno nota, che corre nei posti più impensati del pianeta: dal deserto ai parchi, dalla neve alle montagne. Così come trovo sempre molto utile l'articolo sul training e la mini rubrica Easy Run dedicata a coloro che, come me, corrono da poco. Per chi invece è già un runner qualificato esiste la rubrica Hard Run.
Imprescindibile dalla disciplina in sè, c'è sempre un occhio di riguardo rivolto alla dieta e la parte di Nutrition, dalla quale imparo sempre nuove cose sull'alimentazione, istruisce sui cibi di stagione e su come bilanciare energie e calorie.
A seguire si trovano gli articoli su Lifestyle, quasi sempre scritti da esperti americani. La chicca finale è l'articolo dedicato al viaggio, dove corsa ed esplorazione di un posto nel mondo convergono e lasciano lo spazio alla fantasia e al senso di libertà che corsa e viaggio di solito coniugano. L'unica parte che non mi interessa gran chè è quella dedicata al calendario degli eventi sportivi competitivi e alle gare.
Per me, che la corsa è solo un modo per evadere, la competizione podistica non ha ragione di esistere, ma chissà che un giorno cambi idea.

venerdì 2 settembre 2011

Bret Easton Ellis - Imperial bedrooms

A distanza di 25 anni, Ellis pubblica Imperial bedrooms, con l'intento di dare un seguito a Less than zero.
Clay, il protagonista, è ormai un famoso scrittore e regista alla ricerca di attori e attrici per il suo ultimo film. Ancora una volta, la vera forza del romanzo è la scrittura di Ellis, che grazie a quel riverbero di malinconia che fa riemergere le stesse sensazioni di Less than zero, fa rivivere le ossessioni di un Clay cresciuto, ma privo di personalità. Ancora prigioniero della sua asettica percezione del mondo e da una generica disaffezione nei confronti del prossimo, Clay si ritrova svuotato dalla modernità, ingabbiato dal progresso e perennemente nascosto dietro i suoi Ray-ban neri.
Sullo sfondo una Los Angeles hollywoodiana sbiadita e priva di alcun  fascino, agonizzante e ripiegata su stessa, violenta e perversa.
Ho apprezzato questo romanzo unicamente per la sua capacità di rievocare il vecchio Clay e tutte le atmosfere degli anni 80 di Less than zero, di cui questo libro è inevitabilmente un gemello e che come avevo già scritto nel precedente post, meglio leggere entrambi in lingua originale inglese, per scoprire come essi siano legati. Imperial bedroom è un libro carente di fascino se separato dal suo predecessore, ma comunque imperdibile per gli ammiratori di questo autore.

giovedì 1 settembre 2011

Bret Easton Ellis - Less than zero

La prima cosa da fare per apprezzare a pieno questo breve romanzo di Bret Easton Ellis è leggerlo rigorosamente in lingua originale, cioè in inglese. Per quanto mi riguarda, solo in questo modo sono davvero riuscita a gustarmi questa singolare scrittura.
Infatti, non credo che si possa scindere lo stile asettico, minimale, ipnotico e narcotizzante dell'autore, dalla storia narrata. La seconda cosa è tenere presente che questo fu il romanzo d'esordio di un Ellis ventenne, che lo pubblicò nell'ormai lontano 1985.

Clay è uno studente universitario che torna nella natia Los Angeles per le vacanze di Natale. Los Angeles è diventata la città della disperazione più assoluta, dove imperano rapporti artificiali basati sull'apparenza e lo sperpero del denaro, dove le droghe e i farmaci vengono assunti anche solo per alzarsi dal letto e nessuno comunica più in alcun modo con l'altro. Esemplare è la frase d'apertura: 
                              
                        'PEOPLE ARE AFRAID TO MERGE ON FREEWAYS IN LOS ANGELES'

La gente ha paura di entrare in contatto l'un l'altra addirittura su una superstrada. Le arterie disperse di una megalopoli totalmente priva d'identità è disseminata di automobili guidate da automi, le freeway californiane ricordano la distanza che esiste tra gli abitanti. Clay ripercorre giornalmente i ricordi legati ai posti della sua adolescenza, vive l'allontanamento dalla famiglia e dagli amici vittime di una vita corrotta, dissoluta e afflitti da incapacità affettiva. Intrappolato nel suo stato di trance perentorio, indossa occhiali da sole Ray-ban Wayfarer, ascolta musica del suo tempo, cioè dei fatali anni '80 e il suo unico pensiero si traspone surrealisticamente nell'insegna pubblicità di un albergo ai bordi della Los Angeles downtown, che recita:

                                                           DISAPPEAR HERE

Così lentamente Clay scompare, sbiadito dalle brutture di una vita aguzza come le vene trafitte dall'eroina che ucciderà il suo migliore amico Julian e distrutto dall'isolamento psicologico in cui si troverà impigliato come in una rete, dalla quale escono soltanto laconiche parole, lapidarie come un epitaffio. La scrittura di Ellis imprigiona al punto da sentirsi toccati dalle mani di Clay, catapulta in uno stato di totale estraneazione dalla realtà, che trasporta oltre ogni capacità di ogni percezione sensoriale. Una scrittura che conduce all'annullamento di sè e di ogni volontà di sentire o provare nulla per la realtà circostante. Ellis riesce in modo eccellente a comunicare i 'non-sentimenti' di Clay attraverso la sua scrittura scarna e corroborante, acida come un'allucinazione e come il suo potere di dissolvere ogni cosa.
Leggere questo romanzo significa, come l'insegna luminosa ricorda attraverso la sua funzione  'mantrica', scomparire senza che gli altri si accorgano della tua assenza.

Ho trovato questo romanzo di una potenza devastante e viscerale. Poche parole, che vaporizzano ogni sentimento come un'arma chimica, eccetto la sensazione di sprofondamento in una irreversibile solitudine.
Da questo scritto è stato tratto un film decisamente non all'altezza del romanzo. Lontano dalla trama e dalle emozioni che ne derivano, nel film Clay è una sorta di eroe buono che tenta di salvare il suo amico Julian. Totalmente fuorviante.
Meglio ascoltare invece la canzone del gruppo alt-rock britannico Bloc Party, che al protagonista di questo romanzo  ha dedicato una canzone intitolata proprio Disappear here. A dire poco travolgente.

Il mio voto è: 10 e lode.