MATRIOSKla

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martedì 31 maggio 2011

RAMEN story

Non credo che ci sia qualcuno delle generazioni '70 e '80 che non ricordi di aver visto almeno una volta nei cartoni animati giapponesi uno dei personaggi mangiare, da un enorme scodella, degli strani spaghetti affogati in un denso brodo, decorato da curiosi ingredienti galleggianti.
Gli spaghetti si chiamano ramen e gli ingredienti di contorno possono essere dei più svariati. Vi dirò di più, nonostante l'origine di questa pietanza sia cinese e il nome stesso derivi dalla parola cantonese raomin, i giapponesi hanno sviluppato tutta una loro arte nella preparazione del ramen e innumerevoli versioni. Questo piatto, così ricco ed elaborato, era considerato fin dagli anni della guerra un sostituto del riso durante i periodi di magra e la sua consistenza, sebbene piuttosto satura di grassi, costituiva un alimento completo e altamente nutritivo.
Gli spaghetti, che sono l'elemento base del ramen possono avere le fatture e le provenienze più disparate, ma quello che importa è che siano alla fine un succulento simposio con il brodo di maiale, il retrogusto di umami ( letteralmente 'gusto buono', considerato il quinto gusto giapponese, poichè non rientra in alcuna delle categorie del salato, dolce, amaro, acido), una fetta di uovo sodo, degli spinaci, dei funghi e il simpaticissimo naruto. Pensate che quest'ultimo ingrediente, di solito bianco e rosa, dal contorno frastagliato e dall'interno a spirale, ricavato dal surimi e pesce azzurro frullati e colorati, prende il suo nome proprio dalla bizzarra forma che ha assunto e che si dice ricordi il vorticare delle acque del mare dello stretto di Naruto, che collega l'Oceano Pacifico e il mare interno del Giappone.

I giapponesi, che considerano il sushi e il tempura come dei cibi più prelibati e complessi, considerano il ramen un piatto ideale per la loro voglia di carboidrati e proteine, un piatto caldo e soddisfacente, consumato direttamente dalle scodelle di polistirolo - sia pure esso un preparato istantaneo - mentre sono in piedi al bar, mentre stanno per prendere la metropolitana o sia amorevolmente servito da un maestro di ramen in persona. Naturalmente non bisogna dimenticare di sorbire 'succhiando' letteralmente gli spaghetti, per poterli raffreddare in fretta e per poterne gustare a pieno il sapore.

A proposito di maestri, esiste una vera e propria arte del ramen e la si può scoprire in film molto piacevoli e pseudofilosofici come Ramen Girl e Tampopo. Così come esistono campioni-mangiatori di ramen e un intero museo dedicato a tutte le qualità, provenienze e intrepretazioni di questo cibo. Il museo si trova a Yokohama, la città giapponese con più elevata densità di popolazione cinese, ed è un vero e proprio santuario di souvenir, scodelle e poster della popolare prelibatezza.

Il ramen esiste in Giappone anche grazie ad un'intera industria ad esso dedicata che ha vissuto e tuttora vive dell'enorme boom di produzione e anche di tutto ciò che ne è cresciuto intorno: riviste specializzate,siti web e blog che insegnano come cucinarlo e dove acquistarlo o dove consumarlo negli oltre 200.000 ristoranti sparsi in tutta la nazione.

Il successo di questa scodella senza fondo, si dice che stia anche nel suo basso costo e nel relativo spazio limitato entro il quale lo si può preparare e consumare. In un paese dove gli spazi sono di primaria importanza, dove i telefoni cellulari e le macchine sono concepite per ingombrare il meno possibile, la praticità di questo cibo, la sua immediatezza e la tradizione che stanno dietro tutta la sua originaria preparazione sembrano incarnare perfettamente la natura del Giappone stesso. Ecco perchè quando vado al ristorante giapponese non mi sento abbastanza calata nella realtà delle tradizioni culinarie giapponesi, se non ordino almeno una scodella di ramen e non vi affogo completamente insieme alle bacchette, al delizioso cucchiaino di ceramica che le accompagna per raccoglierne il brodo e alla mia fame stessa.

A Osaka ho provato l'ebbrezza di trovarmi fuori da un ramen-bar nell'ora di pranzo e di dover scegliere da un poster a piedistallo la figura del ramen che volevo. Ho poi inserito il denaro nel distributore dal quale è uscito uno scontrino, che ho presentato al cuoco dietro al bancone di legno, dove altri sorbivano rumorosamente la loro scodella di spaghetti e dopo averne letteralmente 'incorporato' tutta la loro poesia, la mia storia d'amore con il ramen è cominciata...

lunedì 30 maggio 2011

ZABRISKIE POINT - Michelangelo Antonioni

Se fossi un insegnante di letteratura italiana e dovessi insegnare che cos'è una figura retorica e in particolar modo una metafora, senza dubbio, sceglierei di spiegarmi attraverso questo film.

Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni del 1970 fu, dal punto di vista economico un colossale fiasco e dal punto di vista della critica, motivo di derisione su tutti i fronti. La scarsa performance dei protagonisti e l'assenza di volti noti o star di hollywood nelle interpretazioni, hanno lasciato cadere nel vuoto questo film super-intellettualoide per moltissimo tempo.
Penso che non siano graditi gli spoilers e quindi non starò a raccontarne interamente la trama, per non rovinare la sorpresa a coloro che fossero interessati a guardarlo. Ma come spesso mi succede di fare, ormai, vorrei soffermarmi su alcune caratteristiche del film e sui suoi punti di forza.

Sul finire degli anni '60, in pieno clima di proteste e rivolte studentesche universitarie, Mark Frechette si materializza come pseudo-eroe di una storia qualunque - in realtà foriera di una pesante critica da parte del regista Antonioni nei confronti della società moderna post guerra mondiale - in piena fioritura economica.
Magistrale metafora delle ingiustizie politiche, dei dibattiti militanti e dell'amore libero, nonchè dei costumi sociali inglobati e deturpati dalla speculazione economica, il film si apre su un atto di violenza.
Mark, scarmigliato e provocatorio, si macchia di un delitto quasi giustificato, per cui la violenza è un mezzo per emergere dalla fagocitazione globale e, commesso il fatto, l'unica via di salvezza che gli rimane è la fuga.

La prima metafora, quella della dipartita su di un aeroplano privato rubato in un hangar, indica la propensione iconoclasta del protagonista. Quando Mark e Daria dipingono l'aereo, sfigurandolo, nè distruggono in vero, la sua integrità e anche quella del proprietario. L'aereo, a sua volta, metafora di un mezzo d'elevazione al di sopra delle prospettive convenzionali, permette a Mark di osservare la coltre di smog che imprigiona Los Angeles e ne accentua la sua dannata predestinazione di città priva di un cuore e dotata soltanto di quelle arterie-freeway che collegano pezzi di un agglomerato urbano scevro di continuità, isolato e poco distante dal deserto.

Il deserto, quello della Death Valley in California, visto dal punto di osservazione chiamato proprio Zabriskie Point, rappresenta l'acmè del film. Il deserto è il simbolo dell'ultimo avamposto rimasto disponibile per la coppia Mark-Daria, che colta dall'oblio della loro provenienza fisica e sociale, si abbandonano ad un amplesso polveroso e disinibitore, circondati dall'aridità desertica che li sovrasta. Estendono la loro passione fisica ad altri ignoti personaggi che, a guisa di una psichedelica allucinazione, si producono in un'orgia plastica dove tutto è concesso. Gli scenari, i colori, la natura avulsa dalle dinamiche degli ordini sociali costituiti nelle città, sottolineano la pochezza dell'essere umano, restituiscono il potere della nullificazione a questo stralcio di mondo selvatico e desertico e ne ribadiscono la supremazia assoluta sulla civiltà.

La metafora più potente, quella che mi lasciò totalmente atterrita, - poichè da allora ho creduto che nessun'immagine potesse esprimere meglio proprio il concetto di metafora - è la scena finale, in cui Daria, trafitta dalla notizia della fine di Mark, immagina in un'ossessiva reiterazione allucinatoria, la distruzione del microcosmo imperialista, materialista e impietoso, rappresentata dall'esplosione della villa estiva del magnate per il quale lavora.

Daria diventa un detonatore dell'opulenza endemica, che ha vanificato i gesti di libertà idealista di Mark.
La metafora visiva si rafforza in un melànge proto-psichedelico, quando dall'iniziale silenzio mortale della scena, si arriva all'ascolto in sincrono della canzone dei Pink Floyd, Come in number 51, your time is up. Un brano cripticamente somigliante a Careful with that axe, Eugene, che raccoglie nel suo sound distruttivo, il boato delle chitarre, delle percussioni e dell'urlo straziante della voce di Roger waters, che fanno idealmente refluire le speranze del giovane Mark dentro un immaginario canale di scarico, dentro il quale finisce e si disintegra, non solo il simulacro della società capitalista rappresentato dalla casa di proprietà, ma anche il gesto anti-eroico di Mark attraverso il film, culminando in un surreale e cataclismico finale.

Ancora una volta la musica è una parte dominante del successo del film. La colonna sonora rappresenta un tassello inscindibile dal lavoro di Antonioni, grazie a performance straordinarie come quelle dei Pink Floyd, dei Grateful Dead a e di Jerry Garcia, insieme a molta altra musica psichedelica.

Il mio voto a questo film è 9/10.

REM - Collapse into now

DISCO DEL MESE
Non ci si poteva aspettare niente di diverso dai Rem, se non di essere i Rem. Soprattutto quelli degli ultimi tempi e in particolare quelli di 'Accelerate'. Il primo ascolto infatti ricorda il precedente disco del 2008, ma come spesso accade, il primo ascolto non è abbastanza. Talvolta sentire ripetutamente un disco aiuta a assorbirne davvero tutta la bellezza, come l'occhio clinico di un critico d'arte che osserva la tela del maestro.
Sono 12 i brani di 'Collapse into now', che lasciano lontanissimi da sè il ricordo dell'ensamble sonoro di opere come 'Up', 'Around the sun', 'Automatic for the people' e piuttosto si riaggrappano a suoni più grezzi, più rock e più folk come quelli di 'Monster' e 'Out of time'.

La vera sorpresa di ogni disco dei Rem sono sempre i testi delle canzoni. Li contraddistinguono - a eccezione di un testo tristemente nitido come Uberlin - una certa criptica eleganza, un'introversione poetica e una velata autoreferenzialità tipica di Michael Stipe. Ascoltare 'Everyday is yours to win' è come pensare di scendere ogni mattina dal letto con il piede giusto, per poi immalinconirsi dei suoni un po' retro e psichedelici di una vita che sembra più alle spalle che davanti a noi. La voce quasi spezzata di Stipe in 'Oh my heart' racconta la storia di un uomo che torna alla sua città dopo una catastrofe e quasi pare di vedere i malconci paesaggi di un sud americano dove la natura ha imperversato;  il ritmo folk della Luisiana annegata sembra dietro l'angolo. 'Walk it back', in veste di tenue ballata, è una lettera personale cantata, un'intromissione nella vita di due amanti che non sanno come recuperare il proprio destino e il sound lucido e cadenzato descrive senza pietà questo incombere della fine.
Ma il disco non ha nel complesso toni drammatici. 'Mine smells like honey' sembra costituire una sorta di trittico con 'What's the frequency Kenneth?' e 'Imitation of life' e solleva il morale insieme a 'Dicoverer', 'Alligator_Aviator_Autopilot_Antimatter' e 'It happened today' - decorata da un cameo pressochè invisibile di Eddie Vedder - tutti brani dal ritmo sostenuto, rockettaro, quasi festaiolo.
In chiusura,  come già successo con 'E-bow letter', si ripropone lo stesso duo Michael Stipe - Patty Smith in sovrapposizione ipnotica, nella strampalata e verbosissima 'Blue'.
Verrebbe da descrivere questo disco come un 'randomico' (passatemi il neologismo esterofilo) riassunto di quello che i Rem sono stati capaci di creare in tanti anni di carriera. Una summa musicale del loro estro e della loro ispirazione che allieta, rassicura e vivifica i fans di questa talentuosa e ormai imperturbabile band.

Il mio voto a questo disco è 7/10

venerdì 27 maggio 2011

PAUL FRANK story

Paul Frank è una marca di vestiti e accessori che arrivano dagli Stati Uniti ed è anche il primo e secondo nome del suo inventore.
Fin dal 1995 Paul Frank, nella sua Huntington Beach,  cuce portafogli e borse a mano con pezzi di stoffe, tessuti e vinile ricavati qui e là e li vende, regala e baratta con amici in cambio di altro. Dal semplice passatempo, quest'attività diventa un lavoro e, a poco a poco, un marchio conosciuto negli States, fino a raggiungere ricchezza e popolarità in tutto il mondo. Nel 1997 diventa la Paul Frank Industries e il suo successo è garantito anche da una strategia di vendita definita quasi anti-marketing, che gli vale, nel 2001,  addirittura un premio per la qualità d'impresa di marketing delle nuove generazioni, un raggiungimento davvero esemplare per un'azienda alle prime armi e con una gestione ancora quasi familiare.

La filosofia che sta dietro questo brand, che ha come simbolo la famosa scimmietta Julius e i suoi simpatici amici, risiede nelle menti e nei cuori di un gruppo di designer giovani dotati di uno spiccato senso dello humor, ma anche di una certa sensibilità verso l'arte, l'architettura, la musica e il divertimento. A questo marchio hanno spesso fatto riferimento anche personaggi dello spettacolo e band musicali come i White Stripes e i Foo Fighters, ma anche gli Interpol e i Bad Religion,
La novità della fattura dei prodotti PFI, che ora vanno dalle t-shirt, alle infradito fino alle custiodie per Iphone all'inizio stava nell'utilizzo di vinile, comunemente associato alle fatture dei sedili delle automobili degli anni 50.
Ad oggi questo materiale luccicante ed estremamente resistente viene utilizzato per le borse e i portafogli.
Paul Frank esiste negli Stati Uniti grazie a circa 18 stores presenti nelle principali città americane, dalla California del Sud, fino a Los Angeles, San Francisco, Chicago, Dallas e New York. Dopo aver aperto negozi anche in Europa, a Londra, Amsterdam, Berlino e perfino a Dubai e Taipei, l'azienda si appresta ad aprire anche in Giappone e Malesia.

Come nel caso di Hello Kitty, Julius la scimmietta, diventa un leit motiv che dona un'identità e una veste ai prodotti sempre colorata, divertente, impossibile da ignorare. Le orecchie a sventola, la lingua rosso fuoco, gli occhietti furbi e tutte le più svariate realtà in cui si trova, sono una continua fantasiosa ricerca di espressione artistica attraverso un personaggio al quale ci si affeziona all'istante. Paul Frank ha creato un animaletto che vive in un mondo dove lui è il protagonista assoluto, dove ogni scena del quotidiano è rivisitata da una concezione realistico-ottimista: l'elemento animale convive liberamente e felicemente con il mondo umano materialista e sfarzoso, togliendone i lati oscuri e ambigui, regalando un sorriso a chiunque guardi per un attimo negli occhi la faccina innocente di questo adorabile pupazzo.

giovedì 26 maggio 2011

KAWAII e OTAKU

Anche se Kawaii in giapponese ha un'accezione molto specifica - esso infatti significa 'carino' e connota tutta la cultura e subcultura derivante da personaggi della fantasia manga, dalle anime e dai videogiochi e indica tutto ciò che è carino in miniatura, femminile, innocete e buffo - mentre mi trovavo a Osaka, ho sperimentato il mio personale 'stupore Kawaii', osservando in giro particolari del gusto nipponico molto riconoscibile anche per le strade.

Questa foto, scattata in un parcheggio non lontano dal Castello di Osaka, mi stupì particolarmente.



Vedere una tale variegata confusione sul cruscotto della macchina era qualcosa a cui non avevo mai pensato prima: pupazzi dagli occhioni manga, cd di Jap-Pop sparpagliati qui è là, snack e bibite ai gusti più strambi, pacchetti di sigarette e altra varia mercanzia, sembravano messi lì apposta (e forse lo erano!).

Mi ero sempre immaginata, ad esempio, la camera di un adolescente giapponese otaku in quel modo. Gli 'Otaku', infatti, sono strambi personaggi appassionati e, oserei dire, ossessionati da qualcosa in particolare come manga, anime e videogiochi e spesso vivono nel mito di essi. Ne imitano il modo di vestire, parlare e comportarsi. Acquistano compulsivamente tutti i gadget che riguardano i loro personaggi preferiti e di solito frequentano un preciso quartiere di Tokyo, che si chiama Akihabara.
Si dice che il fenomeno otaku sia un modo per tornare a rifugiarsi nel passato della propria infanzia, un modo per sentirsi al sicuro, nascondendosi nel fittizio mondo della realtà virtuale. Gli otaku sono in continua evoluzione, ne esistono di varie categorie e tipologie a seconda del proprio oggetto di interesse. Di loro si dice che siano la risposta ad una società esageratamente distante dalle problematiche giovanili, una reazione all'incomunicabilità tra giovani e vuoto della società moderna giapponese, nonchè risultato dell'assenza di dialogo all'interno delle famiglie.
Insomma il fenomeno otaku, apparentemente così sgargiante e allegro, nasconderebbe vere e proprie manie e situazioni irrisolte del mondo giovanile. L'attrattiva estetica e l'importanza ad essa conferita si può ritrovare anche nel mondo virtuale. Le 'emoticon' o faccine sempre più elaborate e più frequentemente usate nella comunicazione virtuale in rete sono un esempio di come la comunicazione abbia assunto segni sempre più enfatizzati e tridimensionali, per attrarre un'attrazione che pare sottratta e sottostimata dalla società moderna.
Un modo, insomma, per mettersi in evidenza. Forse ciò che il proprietario di quella macchina nella foto voleva disperatamente fare.

Se siete interessati a scoprire che cosa sia un comportamento otaku da una prospettiva letteraria, vi consiglio 'Train Man' di Nakano Hitori, che in giapponese significa 'uno di noi' e che rappresenterebbe il nickname di tutti gli autori del forum che si intercambiano nella narrazione di questo libro, facile e immediata come quella di un sms, costellato da faccine Kawaii ed emoticon, che insieme raccontano una storia comune e semplice, come quella che potrebbe accadere di vivere a chiunque.
'Train Man' ha riscosso successo tra gli otaku stessi e un bacino di lettori che ha acquistato 1 milione e 500 mila copie del libro, diventato poi anche una serie a fumetti, un film per il cinema e una fiction Tv.


martedì 24 maggio 2011

SPEAKER'S CORNER


SPEAKER'S CORNER
Sì, ci risiamo con i modi di dire inglesi. Me ne è capitato uno sottomano davvero divertente. Si tratta di un'espressione un po' lunga da memorizzare, ma credo abbastanza simpatica da usare:

                       'She's one sandwich short of a picnic'

In italiano mi viene in mente quel modo per cui diciamo che a qualcuno 'manca una rotella' o quello per cui si dice che a qualcuno 'manca un venerdì'.
Se aveste avuto un'insegnante di lingua russa come quella che mi capitò al liceo, che portava dentro un astuccio un dado da gioco per estrarre a sorte l'interrogato del giorno, che lo lanciava sulla cattedra e poi lo lasciava cadere per terra e che sorrideva anche quando ti stava mettendo un quattro o mentre ti beccava a copiare il compito in classe e che anche se scopriva che stavi leggendo un libro di un'altra materia durante la sua lezione, nonostante tutto, continuava beata e giuliva a sorridere non accorgendosi di nulla, allora forse avreste potuto descriverla come una persona un po' sulle nuvole.
Usando una descrizione alquanto colorita in inglese, avreste potuto proprio dire: 'She is one sandwich short of a picnic' e risultare abbastanza originali nell'appellativo e non troppo offensivi.
Ovviamente ricordatevi di sorridere, come faceva la mia prof di russo, mentre lo dite, chissà che qualcuno se ne possa risentire uscendo dal proprio cronico, ignaro torpore giusto in quel momento...

domenica 22 maggio 2011

REPTILE - Eric Clapton

Leggendo Murakami e il suo saggio autobiografico 'L'arte di correre', tra le tante piccole meraviglie filosofiche che ho trovato e delle quali vi ho messo a parte in un precednte post, ho scovato anche preziosi e quantomai sorprendenti suggerimenti riguardo alla musica da ascoltare durante le sessioni di jogging.

Non avrei mai pensato di trovare un disco di un grandissimo bluesman come Eric Clapton adatto ad una corsa. Le melodie rilassanti e, a volte, monotone del blues non costituiscono esattamente il mio ideale di sprone per correre sotto al sole delle 6 del pomeriggio in città.
Ma con Reptile, pubblicato nel 2001, le cose si sono subito messe in una luce diversa, tanto da evocare piuttosto un soleggiato e ventilato mattino di primavera che non un afoso pomeriggio qualunque.
Il disco si apre con una prima performance strumentale in stile bossa nova, che dà il titolo all'intero album ed è un invito all'ascolto alle altre tracce più tipicamente rhythm'n' blues, tra le quali emergono Got you on my mindCome back baby cantata da Ray Charles e Find myself.
Un ritmo più melodico e galvanizzante, anzichè impigliato nella leggendaria malinconia del blues si ritrova invece in I aint gonna stand for it e in Travelin' light, mentre I want a little girl, Broken down e Don't let me be lonely tonight, quest'ultima con James Taylor, sprofondano nel genere della soffusa ballata con un rilassantissimo ritmo sexy e dondolante.
Un finale su ritorno da bossa fa di questo disco un'opera delicata, ma anche da primo ascolto, un insieme di canzoni dove il manierismo del blues lascia spazio alla melodia e alla riconoscibilità del singolo brano, dando ad ognuno un'identità e una giustapposizione molto raffinata.
Strano pensare che un disco senza un beat esagerato possa riuscire a strappare alle proprie gambe un allungo di ripetute o una spinta adrenalinica verso gli interminabili chilometri, che scorrono sotto alle scarpe di un aspirante maratoneta.
Ma se, poniamo, una mattina vi svegliaste e vedeste la corsa quotidiana (o quasi) come un momento di relax e di riconciliazione con la natura circostante, allora crogiolarsi tra le note di questo fluido musicale, - che personalmente ritrovo molto nei passaggi di Find myself - potrebbe arrivare a somigliare ad un balsamico massaggio, ad una consolazione per la nostra costanza sportiva. Le sensazioni evocate da Broken down, ad esempio, potrebbero addirittura ricordare una nuotata rinvigorente in una deserta piscina all'aperto. Poi tornare verso la strada di casa, in tempo per gustarsi il morbido splendore della strumentalità pura di un pezzo come Son&Sylvia, provare un senso di pace psicofisica, un sano nutrimento per il corpo e per la mente. Domani, dopodomani e poi il giorno dopo, oltre a sentirvi sempre più un Superman Inside, vi sentirete di aver fatto la cosa giusta, al momento giusto: correre e ascoltare della buona musica.

Il mio voto a questo disco è 9/10.

venerdì 20 maggio 2011

WALKMAN SONY nostalgia

Quando penso agli anni 80, mi ritornano alla mente tanti miti, tanti simboli, tanti oggetti culto. Tra questi di certo ha un posto davvero speciale il Walkman Sony. Ho precisato Sony, perchè tutti gli altri, sebbene funzionassero altrettanto bene, non avevano lo stesso appeal della marca principe che aveva ideato questo nuovo giocattolo musicale. Un po' come quello che succede oggi con l'Ipod. Ci sono tanti altri marchi molto affidabili e d'altrettanto elegante design, ma l'Ipod è l'Ipod e prima o poi, almeno uno nella vita, si arriva a possederlo .

Il 21 giugno del 1979 il colosso giapponese Sony lancia sul mercato il Walkman. Per la prima volta nasceva il concetto di musica portatile; era possibile ascoltare una raccolta, o per usare un termine dell'epoca, una compilation di successi, la copia di un disco vinile o l'audiocassetta originale del nostro cantante preferito ovunque andassimo. In spiaggia, in metropolitana, mentre si faceva jogging e in aereo. Insieme a questo, ovviamente, si diffondeva sempre più contagiosamente anche la possibilità di riprodurre ad infinitum il prodotto musicale. Sembrava un miracolo della scienza quello di poter ascoltare la musica in ogni luogo. Il sedile posteriore della macchina mentre si era portati, magari ancora privi di patente, era uno dei miei luoghi prediletti, ad esempio. Così come girare e visitare città nuove insieme alla musica era un modo per associare all'uno il ricordo dell'altra e viceversa. Il walkman era dunque un compagno inseparabile. Alcuni hanno addirittura scritto che il Walkman segnò la fine della concezione della socialità moderna, privandola di una comunicazione senza interferenze come poteva essere quella delle cuffiette nelle orecchie e l'isolamento che ciò ne derivava. Esiste una rappresentazione teatrale che accenna a questo accadimento sociale e si chiama: 'Miserabili. Io e Margaret Thatcher' di Marco Paolini.

Forse non la pensavano così i creatori del Walkman, pensando invece di fare cosa gradita quando fermavano i potenziali acquirenti del registratore portatile e, con tanto d'inchino, lo lasciavano provare ai ragazzi che passavano per le strade di Giza a Tokyo. Da questi ne raccolsero reazioni e commenti fino a quando il trio Akio Morita, Kozo Oshone e Masaru Ibuka decise di commercializzare il primo modello super leggero e funzionale, capostipite di un successo interplanetario che rese alle vendite della Sony guadagni per ben 330 milioni di esemplari: almeno due li ho comprati io.

L'ulteriore diatriba fu quella di trovare un nome adatto a questo innovativo riproduttore stereo di audiocassette. Il primo nome fu proprio Walkman, poi Scoopman e Discman. In Europa uscì come Soundabout e in Gran Bretagna come Storeaway. Tra tutti il più gettonato fu Walkman e così rimase, a volte anche ad identificare lo stesso tipo di oggetto seppure di altre marche.
La solita leggenda metropolitana riguardo alla vera paternità dell'invenzione, dice che il vero ideatore del futuro Walkman fu però un tale Andreas Pavel, un tedesco-brasiliano che l'aveva chiamato Stereobelt. Nel 1980 Pavel aprì una battaglia legale con la Sony e ne uscì risarcito dall'azienda giapponese con una cifra pari a10 milioni di dollari.

giovedì 19 maggio 2011

HOLGA che mania!

Per i maniaci della perfezione fotografica e per quelli che hanno dimenticato come sia fatta una pellicola, la rudimentale e ingenua Holga non dice sicuramente granchè. Ma per chiunque voglia fare un passo indietro nel tempo, questo piccolo gioiello potrebbe significare molto. Ora il problema sarebbe soltanto quello di dare un significato all'espressione 'indietro nel tempo'.

La Holga nasce in Cina nel 1981 come una macchina fotografica destinata alle masse: facile da usare e molto economica, dotata di una pellicola in formato 120. Nello stile e nella funzionalità la Holga riprendeva il precedente modello di fotocamera analogica economica Diana, concepita a Hong Kong negli anni '60.

Nonostante la sua breve popolarità e il suo effimero utilizzo ben presto sorpassato da modelli di fotocamere con il classico rullino da 35mm, che spopolerà nella Cina stessa e nel resto del mondo, questo oggetto si diffonde anche ad occidente fino a diventare, ai nostri giorni, oggetto di culto.
Per molti è curioso scoprire che perfino il nome 'Holga' non sia altro che la fusione tra oriente e occidente. Pare, infatti, che il nome sia un derivato fonetico della scrittura del termine Cantonese 'ho gwong' - che significa 'molto intelligente' - diventato poi, nel parlato occidentalizzato, proprio 'Holga'.

Nel 2001, per il ventesimo anniversario dell'invenzione della fotocamera, più di mezzo milione di esemplari sono stati venduti in tutto il mondo e hanno generato un'ondata di revival simile a quella per il giradischi e i vinili e per tutto ciò che ormai viene definito vintage.

La Holga è ancora definita come un enigma e ha dato vita ad una concezione di arte fotografica completamente alternativa, tanto che alcuni professionisti e artisti si sono sbizzarriti ad usare in modo creativo questo strumento imperfetto. Già, perchè proprio i difetti e l'assoluta essenzialità, la quasi totale assenza di funzioni interattive - come oggi le conosciamo su ogni aggeggio tecnologico - sono il bello di questo oggetto misterioso. Chiunque entri nel mondo Holga, comincia a varcare la soglia della casualità, dell'inaspettato e dell'incuranza. L'imperfezione data dalla massiccia presenza di vignettature, infiltrazioni di luce e distorsione casuale del frame ne costituiscono l'effetto sorpresa della resa finale.
Si è creato attorno a quest'attitudine fotografica addirittura una filisofia, quella delle cosiddette '10 regole d'oro della lomografia' 

1. Porta la tua lomo ovunque tu vada
2. Usala sempre di giorno e di notte
3. La lomografia non è un'interferenza nella tua vita, ne è parte integrante
4. Scatta senza guardare nel mirino
5. Avvicinati più che puoi
6. Non pensare
7. Sii veloce
8. Non preoccuparti in anticipo di quello che verrà impresso
9. Non preoccuparti neppure dopo
10. Non ti preoccupare di queste regole

Piuttosto bizzarre come regole, d'altronde rispecchiano completamente la natura della Holga. Un quadrato di plastica leggerissimo, apparentemente sproporzionato, che sembra appena uscito dalla cesta dei giocattoli di quando eravamo piccoli.
Se vi capita di vedere almeno alcune delle fotografie scattate con una Holga o una macchina di concezione Lomo (l'antenato sovietico, da cui la Cina ne riprese la costruzione e l'ottica per creare il suo modello, appunto), capirete immediatamente se quest'espressione artistica così anticonformista faccia per voi o meno.

Per quanto mi riguarda, il mio, è stato un amore a prima vista. Vedere per la prima volta una fotografia con la classica vignettatura agli angoli del frame mi ha riportato 'indietro nel tempo'. Così tanto che quell'effeto tunnel che si forma nello scatto sembra un ricordo impossibile da recuperare, riesumato dalla propria coscienza; oserei dire quello di una seconda nascita, un'uscita dalla placenta materna in piena facoltà mentale. Non solo, direi che l'effetto dei colori saturi e snaturati, rimandano alla musica, ai colori, alle reminescenze di anni sepolti nel passato, tanto da ottenere un risultato visivo psichedelico, lisergico, proprio come la musica degli anni 70, come i colori pacchiani e sgargianti delle macchine degli anni 60 e come i completi colorati alla Jackline Onassis, le camicie degli hippies di San Francisco e tutta la gamma cromatica della Summer of Love. Insomma, quando ho cominciato a scattare, ho sperato di ritrovare la mia memoria e addirittura la storia che mi ha preceduto.
Per il momento i risultati sono piuttosto soddisfacenti, ma sono solo agli inizi. Nelle foto seguenti ho ritrovato parte dei miei  ricordi dell'infanzia, reintrepretando soprattutto nella sovrapposizione delle pose, alcuni elementi dissonanti proprio come fossero sfigurati dall'ingordigia della mente, dal suo mdo di archiviarli senza un preciso ordine, ma pur sempre impressi nell'occhio della psiche più reconditae quindi mai perduti.
























mercoledì 18 maggio 2011

CHERNOBYL - Francesco M. Cataluccio

Un insolito viaggio da Chernobyl verso Chernobyl, cioè dalle radici di un posto predestinato anche nel nome ad essere oscuro e maledetto come l'assenzio - la cui etimologia viene usata per battezzare un luogo anticamente noto per i suoi 'neri steli d'erba' - attraverso le sciagure della guerra tra russi, ucraini e polacchi, la carestia e la persecuzione ebraica, fino al racconto di un viaggio verso ciò che rimane dei resti di una catastrofe nucleare, alla centrale di Pripjat
La Zona, come viene sinistramente chiamata, è la destinazione di un viaggio organizzato a cui prende parte l'autore stesso di cui ne descrive i particolari dell'avvicinamento, gli odori, le dimensioni di un posto senza tempo, le precauzioni per potervi accedere e infine la decontaminazione. Ma intorno a quella Zona, per secoli, dalla prima comparsa di Chernobyl in uno statuto del 1193 e fino all'incidente alla centrale, si sono consumati alcuni tra i più efferati accadimenti della storia. Il 'Holodomor' portò la morte attraverso la fame, i nazisti trucidarono un terzo della popolazione ucraina e tutta la sua tradizione contadina e il popolo ebraico vide naufragare la propria cultura altrove. Ma Chernobyl è anche una terra che conserva superstizioni e storie legate ad una presenza demoniaca, e l'autore ne ricollega innumerevoli avvenimenti e ispirazioni letterarie da 'Il Demone' di Lermontov al 'Maestro e Margherita' di Bulgakov, fino ai 'Demoni' di Dostoevskij. Con una colonna sonora pinkfloydiana riesumata dall'album 'Atom heart mother', la cui copertina con la mucca pezzata ricorda l'unico animale avvistato nei campi contaminati di Pripjat, Cataluccio associa il potere distruttivo dell'esplosione atomica, al potere sinfonico di una musica che il 26 aprile del 1986 ha smesso di suonare, lasciando dietro sè un silenzio e un'immobilità animati soltanto dalla fantasia di un posto che a suo dire un giorno diventerà la 'Disneyland della radioattività', dove ancora una volta i malefici della presenza umana trasfigureranno la natura a propria immagine e somiglianza.

martedì 17 maggio 2011

SPEAKER'S CORNER


SPEAKER'S CORNER


Non riesco a resistere ai modi di dire inglesi e americani e dunque anche se per questo mese ne avevo già proposto uno vorrei fare il bis, e a questo punto, non garantisco più che non mi ripeterò anche nei prossimi giorni:


                                 'Nothing to write home about'


Mettiamo di trovarci ad una certa cena con amici e di essere gli invitati d'onore della serata. Lo scopo dell'incontro potrebbe essere quello di trovare la propria anima gemella e, dunque, vi potrebbe capitare di trovarvi seduti di fronte al proprio pretendente. Dopo gli auspicabili fasti di un pasto luculliano e piacevoli conversazioni, il vostro amico del cuore sicuramente vi chiederà che cosa ne pensate della ragazza o del ragazzo che a voi era destinato. Se non siete rimasti affatto colpiti dalle fattezze e dalla bellezza del possibile pretendente, ma non volete offendere nè il malcapitato e nemmeno il vostro amico, che si è adoperato per organizzare la serata, per escludere l'imbarazzo e schivare la risposta diretta potreste dunque usare un modo garbato e velatamente ironico dicendo. 'Mmmmmmhhhh....She/He is nothing to write home about', che in questo caso significherebbe 'Niente di chè', o 'Niente di speciale'...e che letteralmente significherebbe che di certo non andreste a raccontare a nessuno (o addirittura a scrivere) di aver visto qualcuno di rara bellezza...

Ovviamente potete usare quest'espressione tutte le volte che vi capiterà di dover esprimere il vostro giudizio su chiunque vi capiti a tiro e non vi piaccia per niente...e mantenere un certo distacco tipicamente anglosassone! 

lunedì 16 maggio 2011

AGAINST ALL ODDS o Gabriela Sabatini

Contro ogni probabilità Gabriela Sabatini non leggerà questo post. Ma come ogni anno non riesco ad ignorare questa data: il 16 maggio.





Immagino Gabriela Beatriz che nasce il 16 maggio 1970 all'Hopital Italiano di Buenos Aires, in una famiglia benestante di origini italiane e che trascorre la sua infanzia nella villa di campagna di Villa Devoto. La riga di mezzo, la racchetta di legno, i completini anni '70 super stretti e una ragazzina coi codini, che prende a pallate il muro del River Plate Tennis Club, di cui la sua famiglia diventa membro. Bastano pochi colpi, in una città dalle stagioni al contrario - e come lei stessa anni dopo dichiarerà - per innamorarsi del tennis a prima vista. Ha solo 6 anni e il vento caldo dell'emisfero australe soffia tra i suoi capelli e asciuga il sudore intorno al suo collo, lasciando trapelare una malinconica attitudine al campo da tennis e un carattere schivo alla popolarità. A 11 anni la ragazzina ha già un allenatore che la porta in giro per il Sudamerica e quel vento che schiaffeggia le sue lunghe gambe abbronzate e asciuga i fili dei suoi capelli corvini adagiati sulle spalle, la trasporta fino in Francia per vincere il Roland Garros Juniores e diventare a soli 14 anni una campionessa prodigio.

Le danze si aprono e il  circuito professionistico e i suoi campi sintetici ardono sotto le sue Sergio Tacchini Sabatini Competition. La debuttante è nella mischia: i cieli dell'Australia, dell'America, dell'Europa la guardano dall'alto, mentre corre dentro un colorato rettangolo.  Nel 1985 è ufficialmente una giocatrice professionista. Gaby, adolescente e timida, gira il mondo con le canzoni di Phil Collins nelle cuffie del suo walkman, partecipando ai tornei più prestigiosi e ben presto ottiene risultati importati, conquista stuoli di ammiratori per la sua malìa e per una certa indifferenza al palcoscenico. A soli 15 anni soltano Chris Evert e Martina Navratilova la fermano prima del traguardo dei tornei dello Slam. Ma loro sono già delle veterane, mentre la ragazza ancora si deve fare e siamo nel cuore degli anni '80, quando tutto il futuro è ancora davanti. La professionista deve imparare come gestire la sua popolarità, come alzare lo sguardo e non incurvare le spalle quando schiere di fans la accolgono agli aeroporti di Miami e di Ezeiza a Buenos Aires, entrambe sue residenze, mete di fuga dal frastuono e dalla pressione di un pubblico che la divora con gli occhi. Gabriela Sabatini incontra la sua spietata, algida, biondissima rivale Steffi Graf. Ci sono da subito tutti i presupposti perchè questa rivalità sia un giorno leggenda. Gabriela perde il primo di altri 39 lunghissimi confronti diretti che seguiranno nel corso della sua carriera contro la numero uno del mondo incontrastata, ma il cammino è ancora lungo. Lungo come la pista che deve percorrere come portabandiera nazionale per i colori dell'Argentina alla cerimonia d'inizio dei Giochi Olimpici di Seul del 1988, ha ancora solo 18 anni. Lo sguardo è triste mentre durante la premiazione Gabriela fissa la bandiera del suo paese; d'altronde in una terra chiamata Argentina può portare con sè, legata al collo, mentre sbatte pesante sul suo seno di giovane donna proprio una magnifica medaglia d'argento, appunto.
A un passo dalla vittoria nella semifinale US Open 1988 contro una Steffi Graf che cercava di vincere il Grande Slam, appare sullo schermo della mia tv in una calda sera di settembre, per la prima volta. Da quel giorno ho portato con me la sua figurina di Seul nella tasca posteriore dei jeans per anni, ho comprato la mia prima e unica maglietta da tennis con gli sbaffi rosa fluorescenti con cuo ancora gioco e ho imparato a memoria il suo modo di sorridere.
All'alba del nuovo decennio, sul campo centrale  di Flushing Meadows a New York, per l'esattezza al Corona Park, 'Miss Sabatini', come si usa chiamare le tenniste sul campo, diventa campionessa e vince il suo primo e unico titolo di uno Slam in finale contro Steffi Graf. Gli occhi brillano, la coppa si alza al di sopra delle sue spalle che spuntano da una maglietta bagnata, la folla è in delirio. Lo stesso traguardo viene mancato di un soffio l'anno successivo, quando riesce ad arrviare a soli due punti da vincere il torneo di Wimbledon e perde l'occasione della sua vita; quella di diventare numero uno del mondo.
Ma il mondo è un altro e ama questa magnifica eterna seconda. Il suo destino è stato quello di capitare in un decennio di tennis che non si ripeterà e le sue vittorie sono il lottato ricordo di una sfida tra titani partoriti dalla fantasia e da un'era che non esiste più e che è partita per un viaggio verso galassie sconosciute, là dove stanno di casa le stelle. Il campo centrale del Foro Italico di Roma l'ha amata come una divinità: questo nome familiare, le sue sembianze mediterranee, una modestia singolare, una bellezza dirompente, ormai, e un talento ancora di ragazzina, che era brava ma non voleva credere che oltre a quel muro del Club del River Plate ci sarebbe stata una carriera di trionfi, seppure contro ogni probabilità.

Ho avuto l'onore di conoscere Gabriela Sabatini di persona, di avere una foto (non proprio ottima) con lei e un autografo. E' successo durante il torneo di Roma il 6 maggio del 1992, avevo solo 16 anni e quella sera ero sul tetto del mondo. Da quel giorno, da buona fan che si rispetti, ho pensato che tutto il resto intorno a me poteva anche non esistere più, perchè il mio obiettivo era stato raggiunto.
Buon Compleanno mio splendido idolo dell'adolescenza, io avrei voluto essere come te...e un po' lo sono stata.

domenica 15 maggio 2011

TOKIDOKI world

'Japanisme' è un termine che significa passsione per tutto ciò che è Made in Japan ed è anche la linea guida, o ancor meglio il tratto artistico, che caratterizza lo stile di un brand italiano come Tokidoki. Difficile non pensare ad altri famosissimi nomi piuttosto simili come Hello Kitty, perchè Tokidoki, che in giapponese significa 'qualche volta', ne ricorda il concept di fondo: personaggi simil-manga, ipercolorati, calati in un estemporaneo mondo stilizzato, ricco di allusioni all'odierna società, proposti su magliette, borse, accessori di ogni genere. L'ideatore di Tokidoki è Simone Legno, romano di nascita, classe 1977, residente a Los Angeles e appassionato di Giappone, tanto da amarne la cucina, lo stile di vita, il rispetto per il prossimo e lo sforzo di una società che punta tutto sul 'non disturbare'.
Curioso pensare che un paese così vulcanico di idee, precursore di avanzate tecnologie sempre più invasive e sensibile alle forme più svariate di eccesso e divertimento, possa impressionare soprattutto per il proprio senso civico. Simone Legno conosce bene Tokyo, Osaka, Kyoto, insomma tutte le città principali - con un occhio di riguardo per quest'ultima - dello stato nipponico e, da poco, Tokidoki ha trovato un partner attendibile per lanciare la nuova catena di shop in shop (i negozi all'interno dei deparment store) aperti a Osaka e Yokohama. Per quanto riguarda il resto del mondo, Tokidoki è già conosciuto negli Stati Uniti con due store a Los Angeles e Santa Monica, in boutique in quasi tutti i continenti e ovunque in Europa.

Credo che il successo di questo design stia nella capacità da parte del designer di creare personaggi a sorpresa. Non esiste infatti solo un unico, riconoscibile 'dittatore' declinato in innumerevoli versioni; quello di Tokidoki è un mondo più democratico, più variegato, dove animali, cibo, oggetti di culto e perfino le celebrità vengono richiamati e reinterpretati da simpatici pupazzetti dell'immaginario moderno definiti Kawaii (in giapponese 'faccia carina'), che vivono nel nostro stesso mondo. Di questo mondo si intuiscono persino i nomi di altri brand, in una sorta di orgia globalizzata, tra cui I heart NY, TDK, Adidas, Mc Donald's. Un tripudio di rimandi ad una società ipercinetica, ipercolorata, multietnica nella quale Simone Legno vive il suo tempo e lo trasfigura rendendolo meno arcigno, meno brutale, anzi ne estrapola una vena autoironica, ne coglie un senso di convivialità piuttosto che di omologazione, seppure i suoi modelli e le sue ispirazioni siano cloni di un mondo sempre più uguale a se stesso. Penso che apprezzare il tratto di questo stile significhi intenderne la volontà ludica della riproduzione artistica, il puro divertissement, che ha dato al suo creatore un ritorno di business e popolarità inevitabili. 

sabato 14 maggio 2011

L'ARTE DI CORRERE secondo Murakami

‘L’arte di correre’ è un regalo dello scrittore giapponese Haruki Murakami alla sue due più grandi passioni: la scrittura e la corsa. Leggere questo breve saggio autobiografico, è scoprire come l’autore sia riuscito, nel corso di un trentennio,  a coniugare la sua professione di scrittore e la sua dedizione al running. Dalla necessità di mettere in moto un fisico incline alla pinguedine, causata dalla vita sedentaria, fino alla volontà di mettere alla prova se stesso in vere e proprie competizioni, Murakami scopre una naturale idiosincrasia con uno sport che pare affine alla natura stessa del letterato. La corsa, come la scrittura, sono esperienze solitarie, prove di estrema fiducia nelle proprie capacità psico-fisiche. Per apprezzare a pieno questo scritto, bisogna avere almeno un briciolo dell’anima del runner, altrimenti non si potrebbero capire certe interpretazioni filosofiche, che l’autore rende di un’attività apparentemente solo fisica e materiale come la corsa. C’è del sublime in questa disciplina, ci può essere una chiave di lettura di questo sport per cui ad ogni minimo gesto si potrebbe attribuire un prezioso significato.

Di molti pregevoli passaggi del saggio, ne prediligo uno nello specifico. Forse chi corre non si è mai posto questa domanda: ‘a cosa si pensa mentre si corre?’, e sapete perché chi corre non si pone mai questa domanda? Perché il runner mentre corre non pensa a niente e dunque non pensa nemmeno di doversi domandare a che cosa abbia pensato mentre correva. Murakami elabora in modo assai intimistico e originale questo concetto in un punto del libro che vorrei citare:
‘Mi viene spesso chiesto a che cosa penso quando corro. Di solito la gente che mi chiede questo non ha mai corso lunghe distanze. Indugio sempre su questa domanda.  A che cosa penso esattamente quando corro? Non ne ho idea. Nei giorni freddi credo di pensare un po’ a quanto freddo faccia e nei giorni molto caldi al calore. Quando sono triste penso un po’ alla tristezza. Quando sono felice penso un po’ alla felicità. Come ho accennato prima, ho anche ricordi casuali. Occasionalmente, quasi mai a dire il vero, mi viene un’idea da usare per un romanzo. Ma davvero, mentre corro non penso a niente che sia degno di essere menzionato.
Semplicemente corro. Corro in un vuoto. O forse dovrei metterla in un altro modo: corro in modo da  acquisire un vuoto. Ma come potreste aspettarvi, ogni tanto un pensiero scivola dentro questo vuoto. La mente  non può essere completamente assente. Le emozioni degli esseri umani non sono abbastanza forti e costanti da sostenere il vuoto. Ciò che intendo dire è, che i tipi di pensieri e idee che pervadono le mie emozioni mentre corro rimangono subordinati a quel vuoto. Privi di contenuto, essi sono dei pensieri casuali che si radunano intorno al quel vuoto centrale.
I pensieri che mi raggiungono mentre sto correndo sono come nuvole nel cielo. Nuvole di tutte le diemensioni. Vanno e vengono, mentre il cielo rimane il solito cielo di sempre. Le nuvole sono semplici ospiti nel cielo, che passano e svaniscono, lasciandosi dietro il cielo. Il cielo esiste e non esiste, esso ha sostanza e al tempo stesso non ne ha e noi mestamente accettiamo quella vastità e ne siamo affascinati.'
Ora che Murakami ha dato voce e parole a questo vuoto è difficile correre e pensare di doversi ricordare di aver pensato mentre si correva, è molto più facile pensare di non aver pensato affatto. Forse è questo uno degli affascinanti misteri della corsa: l’estraneazione, l’abbandono totale alla fisicità pura, l’immersione della mente nel corpo tanto da rimanerne sommersa, una sensazione di inspiegabile appagamento, tale da zittire il pensiero, l’approdo in un vuoto liberatorio, uno stato di matematica coordinazione tra sforzo fisico e leggerezza psichica che sfiora lo stato di grazia.

venerdì 13 maggio 2011

IL LAUREATO

CLASSICO DEL MESE : film
La trama di questa pietra miliare del cinema americano degli anni '60 è nota a tutti e, forse ai nostri tempi, riassumerla in poche righe potrebbe risultare banale. Per i 'beati' che non hanno visto questo film e ai quali rimane ancora il gusto della sorpresa, non svelerò la trama.
Vorrei solo attirare l'attenzione su alcuni momenti davvero campali della storia.

Innanzi tutto il silenzio. Non parlo della scarsità dei dialoghi, che al contrario abbondano, ma alludo al silenzio 'esistenziale' di Benjamin.
Quando ormai la sua integrità morale viene distrutta dalle lusinghe della Signora Robinson, il silenzio si impossessa di lui. Irretito da una passione travolgente, alla quale i suoi sensi rispondono con un certo cinico automatismo, Benjamin si ritrova isolato: non ha amici con i quali confidarsi, cerca la solitudine palesemente esemplificata dal gesto di chiudere la porta della stanza nella quale si ritira a bere una birra perso nei suoi pensieri. Si autoesclude dalla cerchia dei giusti e crede di appartenere ad una diversa 'casta': quella degli anticonformisti.
Chissà cosa pensava, quando nascosto dietro ai suoi occhiali scuri, fissava completamente immoto il fondo turchino della sua piscina di una villa di Pasadena e, chissà, se anche lui sentiva partire in sottofondo, in un perfetto connubio tra immagini e musica, le note struggenti di 'The sound of silence', o se invece sentiva soltanto quel vuoto esistenziale, il suono del silenzio appunto, che permeava ormai la sua corrotta giovinezza. La muta da palombaro, regalatagli dai genitori, sembra ormai l'unica veste appropriata alle sue apnee mentali, il fondo della piscina è l'unico posto dove può nascondere il peso della sua coscienza, il suo segreto e dove può sbollire il desiderio atavico di possedere una donna più grande di lui.
Ma ben presto il silenzio lascia spazio alla noia e quando il padre gli chiede:


                                      'Che cosa fai Ben, lì in piscina?'
                                      'Vado alla deriva...qui in piscina'

è ovvio che la realizzazione del misfatto sta per assumere le sembianze di una rassegnazione in cui non ha più niente da perdere. Ben, ha perso di vista il suo obiettivo, ha perso la retta via, è alla deriva appunto, è perso, è un disperso, in una comoda piscina di famiglia, non troppo lontano dalla terra ferma in realtà, ma comunque estraneo.

La trasformazione di Ben giunge con l'entrata in scena di Elaine Robinson ed è qui che Ben, attirato dal richiamo di una donna coetanea, ritrova con lei un barlume di decenza, si innamora davvero, anche se il suo amore sembra piuttosto l'attrazione per il nuovo frutto proibito. La sua testardaggine nel rincorrere Elaine, la sua frenesia quasi psicolabile nel seguirla ovunque culmina nel passaggio di Ben alla pura perdizione. Il Golden Gate scivola sotto le ruote della sua spider Alfa Romeo Duetto e lo fa letteralmente transitare nel buio più becero della sua ossessione. Ben diventa un reietto e la famiglia Robinson lo fugge come la peste o addirittura come l'anticristo, come magnificamente trasposto dall'immagine di Ben, che irrompe in chiesa durante il matrimonio 'riparatore' di Elaine, con la croce cristiana fra le mani.

La fine di Ben è un'icona: quando si ritrova seduto nel retro di un autobus cittadino insieme alla sposa rubata, il suo ebete sorriso spento dall'incredulità degli astanti, diventa una smorfia di terrore. Come una bestia, come un incubo lo rode ancora quel silenzio, quel vuoto, quell'insoddisfazione tipica della voracità giovanile, l'insaziabile desiderio di privare la prossima vittima della sua sacralità, senza mai raggiungere un punto di approdo, senza trovare la requie consona ad un'età più matura che prima o poi lo catturerà.

Mi chiedo chi non si sia mai sentito almeno una volta, nella propria vita, un po' Benjamin Braddock. Chi non ha celato segreti e insoddisfazione? Chi non ha desiderato tutto ciò che non si poteva avere? Chi non ha assaporato nella propria adolescenza o giovinezza la volontà di potenza, il megalomane impulso di distruggere un'eredità genitoriale già troppo scontata? Chi non ha mai sperimentato la noia, lo spleen esitenziale? 
Il primo è stato Adamo e l'ultimo, forse, deve ancora calpestare questa terra.

Chiamo questo film 'classico' perchè è una poderosa metafora di un passaggio obbligato nella vita di molti e vorrei sottolineare, che almeno un quarto di questo film è interpretato da una colonna sonora altrettanto magistrale, quella del disco di Simon & Garfunkel 'The Graduate', quanto quella del grandissimo Dustin Hoffman.

Il mio voto a questo film è 10/10.



mercoledì 11 maggio 2011

IN ASIA - Tiziano Terzani

LIBRO DEL MESE
Sono già arrivata a quota 3 libri letti di questo autore. I precedenti erano 'Buonanotte signor Lenin' e 'Un indovino mi disse', entrambi molto ben scritti e accattivanti.
'In Asia' è un libro piuttosto eterogeneo, sostanzialmente una raccolta di esperienze e cronache geograficamente collocate nel continente asiatico: dalle Filippine, alla Corea, dal Giappone all'India, alla Cina fino a Sri Lanka. Un libro che mi ha riportato agli anni 80 e 90 e che forse un po' soffre il tempo, tuttavia si tratta di un libro dallo stile giornalistico-storico-documentaristico e ovviamente la sua natura è quella di raccontare fatti accaduti nella storia più recente, ma ormai passata.
La parte più ampia dedicata al Giappone - dove l'autore ha vissuto per 5 anni - lascia intravedere un paese che rispecchia e alimenta il nostro immaginario riguardo al classico stile di vita nipponico: la dedizione al lavoro, la volontà di emulazione nei confronti dell'occidente, la ferrea disciplina, la serializzazione e alienazione del popolo giapponese. Pagine che lasciano un po' di amaro in bocca e un certo dubbio riguardo alla posizione dell'autore nei confronti di questa nazione. Una nazione nella quale a detta di Terzani, non si dovrebbe vivere per più di un quinquennio, per evitare la follia.
Le parti dedicate a Cina e India gettano il lettore in un mondo di cui si sente sempre parlare come se fossimo seduti in una stanza diversa da quella in cui accadono i fatti: ciò che avviene è talmente chiaro e palese da rasentare l'ovvietà e la nostra identità europea ne è alquanto estranea.
Una piacevole infarinatura di culture che lasciano la curiosità di essere esperite dal vivo, un libro da leggere prima di un viaggio in uno o più di questi paesi 'drammaticamente' lontani.

Il mio voto a questo libro è 6 e mezzo/10

martedì 10 maggio 2011

La zuppa di miso come metafora di una tempesta


Chi conosce la cucina giapponese, di certo avrà provato almeno una volta ad ordinare la zuppa di miso. Di solito è compresa nei bento dei menù fissi del mezzogiorno della maggior parte dei ristoranti giapponesi. C'è chi la ama particolarmente, chi si limita a gustarla come accompagnamento caldo che precede le classiche portate fredde quali sushi, sashimi e maki. C'è chi si cimenta anche a prepararla in casa e chi la acquista direttamente in buste sottoforma di liofilizzati.
Di tutte le zuppe di miso che ho gustato sempre con enorme piacere, mi ricordo solo una volta in cui ho voluto rinunciarvi; quella in cui nella sala ristorante dell'hotel di Osaka dove ho alloggiato durante il mio viaggio in Giappone, la servivano per colazione. All'inizio non mi spiegavo quell'odore di pesce al vapore che esalava da enormi pentoloni d'acciaio adagiati di fianco alla classica omelette internazionale.
Tempo dopo, leggendo l'illuminante e dovizioso libro di Michael Booth 'Sushi and beyond', ho capito il significato di quell'odore un po' nausebondo che usciva dal pentolone e ho capito come l'oriente abbia riversato la sua sapienza e meticolosità culinaria in un semplice brodo di pesce, alghe e tofu, che per una inspiegabile chimica magia ripropone una sorta di primordiale diluvio universale...

...' la zuppa di miso è una delizia per gli occhi così come lo è per il palato. Quando la zuppa è pronta e viene versata nella scodella, le particelle di miso si disperdono tutt'intorno in un'omogenea foschia, lasciata indisturbata per qualche minuto, le particelle si radunano nel centro della scodella in discrete nuvolette che lentamente cambiano forma. Le nuvole si costituiscono in cellule dalla forma convessa e in colonne che nell'ebollizione del brodo si innalzano dal fondo. Se la si lascia raffreddare, la zuppa si raddensa  e si prepara ad evaporare verso la superficie per poi ricadere. Se riscaldata ritorna meno densa, poi si ravviva e così via. La zuppa di miso, insomma, metterebbe in atto a tavola lo stesso procedimento che genera una nube temporalesca in un cielo estivo.'

lunedì 9 maggio 2011

VLADIMIR MAJAKOVSKIJ - Lilicka!

POESIA DEL MESE 
Sebbene non si possano racchiudere in un post la vita, la biografia e le magnifiche gesta letterarie di questo poeta, proverò a riassumere qualche dato rilevante.
Vladimir Vladimirovic Majakovskij nacque a Bagdadi (Georgia) nel 1893. Studiò a Mosca, dove partecipò attivamente alla lotta politica clandestina e dove subì numerosi arresti. In campo letterario, aderì al gruppo dei giovani poeti futuristi, di cui divenne l'esponente più prestigioso. Partecipò alla Rivoluzione d'Ottobre, cui dette il contributo della sua grande versatilità, dirigendo giornali e scrivendo opere di poesia e di teatro che lo resero popolarissimo in Unione Sovietica. Venuto in urto col potere costituito, si uccise con un colpo di pistola al cuore in un appartamento di Mosca nel 1930. 

Ho scelto di farvi leggere questa sua poesia, perchè appartiene a quella fase artistica di Majakovskij che pochi conoscono, la sua fase 'romantica', il suo esordio poetico prima che diventasse, come Stalin in persona lo nominò, 'il poeta della rivoluzione'. Ancor prima di essere un esponente della poesia cubofuturista, Majakovskij fu un tormentato, giovane innamorato il cui amore per Lilja Brik aveva nutrito e sfamato la sua ispirazione poetica e, come egli stesso disse, per lei era diventato tutto cuore ed era  'impazzita l'anatomia'...

Lilicka!
In luogo di una lettera

Un fumo di tabacco ha divorato l'aria
la stanza
è un capitolo dell'inferno di Krucennych.
Ricordati -
proprio a questa finestra
per la prima volta
estasiato accarezzavo le tue mani.
Eccoti oggi seduta,
il cuore chiuso dentro una corazza.
Ancora un giorno e poi
mi scaccerai
magari anche imprecando alle mie spalle.
Nella buia anticamera la mano nella manica
più non stenterà a entrare disfatta dal tremore
correrò via
e getterò il mio corpo sulla strada.
Selvatico animale
impazzirò
sotto una sferza di disperazione
ma così non si deve,
mia cara,
mia diletta,
meglio lasciarci ora.
Non importa -
il mio amore
è un pesante macigno
che incombe su di te
ovunque tu possa fuggirmi.
Lascia in un grido estremo che si sfoghi
l'amarezza dei lamenti e del rancore.
Quando anche un bue è disfatto di fatica
lui pure andrà a gettarsi
in fredde acque in cerca di ristoro.
Ma altro mare non c'è
per me
tranne il tuo amore,
nè tregua c'è in amore anche nel pianto.
Se un elefante stanco vorrà pace
si stenderà maestoso sull'infocata sabbia.
Ma altro non c'è
per me
tranne il tuo amore,
benchè io non so tu dove o con chi sei.
Se così se ne fosse tormentato
dell'amore - un poeta
in soldi e gloria l'avrebbe mutato,
ma altro suono non c'è
che mi dia gioia
tranne che il suono del tuo nome beato.
E non mi getterò giù nella tromba delle scale
e non berrò il veleno
nè premerò il grilletto dell'arma sulla tempia.
E non c'è lama di coltello che
abbia su me potere
tranne che sia la lama del tuo sguardo.
Tu scorderai domani
che io t'incoronavo,
che d'un ardente amore l'anima ti bruciavo,
e un carnevale effimero di frenetici giorni
disperderà le pagine dei miei piccoli libri...
le secche foglie delle mie parole
potranno mai indurre uno a sostare,
a respirare con avidità?

Almeno lascia che un'estrema tenerezza
copra l'allontanarsi
dei tuoi passi.

26 maggio 1916 Pietrogrado

 

 

giovedì 5 maggio 2011

SPEAKER'S CORNER

SPEAKER'S CORNER
Data la mia passione per le lingue straniere e la mia deformazione professionale, ultimamente mi sto dedicando alla scoperta dei modi di dire. Per questo mese vorrei proporne uno che mi ha divertito parecchio non appena l'ho sentito.

'They are a match made in heaven'

Nella traduzione italiana è quello che noi diciamo 'Dio li fa e poi li accoppia' e, come in italiano, in inglese si può usare in modo carino, in modo dispregiativo o sarcastico a seconda delle situazioni. Per esempio, se vedete una coppia di fidanzatini nerd seduti al gate d'imbarco di un aeroporto che, anzichè scambiarsi effusioni, si scambiano mail con il loro portatile sulle ginocchia, alzando gli occhi al cielo e accennando al solito 'Oh my God...' potreste pensare....'well...they are a match made in heaven' e, secondo quanto vi risultino simpatici o meno, quest'espressione può essere intesa come una simpatica definizione o un'acida considerazione.
Alla prossima!