MATRIOSKla

MATRIOSKla

lunedì 20 giugno 2011

La balena azzurra

Torno a parlarvi delle balene..non riesco a non pensare a questi strani esseri che con la loro enormità popolano gli oceani e nonostante questo sono così poco visibili, così enigmatici, così inavvicinabili. Strano, oltretutto, pensare che seppure la loro taglia incuta sgomento e orrore, siano animali del tutto innocui e alquanto socievoli.

L'esemplare animale più grande che abbia mai popolato il pianeta si chiama Balaenoptera musculus Balenottera azzurra. Il naturalista e biologo Carlo Linneo derivò il suo nome dal latino 'balaena' e dal greco 'pteron' che significa 'pinna' o 'ala' e il nome della specie, musculus, è il dimininutivo dal latino mus, che significa 'topo' - a quanto pare un vero e proprio scherzo di Linneo.
La 'balena topolino' tuttavia può crescere fino a 200 tonnellate di peso e 30 metri di lunghezza. Così come un elefante può trasportare sul suo dorso un topolino, allo stesso modo un elefante potrebbe essere ipoteticamente trasportato da una balena azzurra, proprio come un topolino. Si dice addirittura che Jonah, se fosse stato iniettato in una balena anzichè inghiottito, avrebbe potuto nuotare dentro le vene dell'animale, trascinato ogni dieci secondi dal lento e divino battito.
Quando si tratta di nutrimento, si può immaginare come le quantità influiscano sulla necessità di spostamenti in zone dell'oceano atte a soddisfare un fabbisogno proporzionato a tali misure. Si è osservato che la balena azzurra, a differenza di altre specie abbia bisogno di molto più di un semplice spuntino, soprattutto durante l'inverno. C'è un posto chiamato Dome, che si trova in Costa Rica che rappresenta una vera e propria oasi di rifornimento di ciò che costituisce il sostanziale nutrimento delle balene: il krill.

Mentre leggevo una delle mie riviste preferite, cioè il National Geographic  (versione americana), mi sono soffermata su di un articolo davvero interessante e a tratti anche un po' tra il comico e l'imbarazzante, per quanto riguarda le mie amate balene.
Gli scienziati per accertarsi della loro presenza nei posti, che di solito perlustrano per studiarle, si basano su due dati piuttosto evidenti: le loro tracce di escrementi in mare e il loro alito. Questi due elementi determinano la vicinanza con l'animale e il momento in cui esso si è nutrito. Di solito l'odore che emana dalle balene azzurre è molto forte, ma il primato di intensità di odore lo detiene la balena grigia.
Vi ho già parlato dei canti delle balene. A quanto pare, la balena azzurra emette un sordo e stentoreo battito di basso in LA, seguito da un continuo richiamo in SI e ciò costituisce il più magniloquente canto di tutto il mare, in grado di propagarsi per tutto il bacino di un intero oceano. La maggior parte delle balene tuttavia, si muove silenziosamente.
Un modo davvero inequivocabile per poterle individuare dalla superficie del mare è il caratteristico spruzzo d'acqua; enormi fontane di acqua salata si innalzano fino a 30 metri. Se il sole illumina questi getti poderosi, talvolta è possibile vedere la dispersione del colore attraverso una sorta di prisma nell'esplosiva espansione di spruzzi e vapore, quasi come se per pochi millisecondi fosse possibile vedere un arcobaleno, prima che si dissolva in zampilli di bianco sfumato.
Pare che sia impressionante osservare le narici collocate proprio nello sfiatatoio che si posiziona sulla parte posteriore della testa. Questo affusolato rigonfiamento forma una sorta di naso dal profilo 'romano', che risulta sproporzionatamente grande perfino per le balene più grandi. La sua dimensione dunque spiegherebbe le fragorose e compulsive esalazioni, che più che ad un respiro, somiglierebbero ad una detonazione seguita da inalazione.
Un'altra impressionante caratteristica della conformazione fisica della balena è il colore: un bagliore vitreo ricopre la superficie della schiena, che a seconda della luce riflette un grigio argenteo tendente al blu pallido.
Data la scanalatura della pelle dell'animale, quando esso si trova in fase di emersione, la prima cosa che si avvista sono rivoletti e pieguzze che creano un enorme tessuto di canali. Chiunque li osservi, si dice che ne rimanga ipnotizzato per via della loro perfezione geometrica.
Ma il colore della balena azzurra in immersione è l'elemento di maggiore attrazione. Il blu-grigio che si osserva in superficie vira in un incantevole turchese non appena la balena scompare sotto la superficie del mare. 

Non appena si avvistano le scultoree scalanature della pelle dell'enorme cetaceo, è bene allontanarsi; ciò significa un profondissimo tuffo negli abissi, l'avvistamento di una enorme coda che sembra lanciare un addio, rivoli che rimangono in superficie e che ipnotizzano l'osservatore e che come scrisse Herman Melville nel suo Moby Dick ' In nessuna creatura vivente vi sono linee di una tale bellezza tanto squisitamente definite come nei profili di queste scanalature crescenti '.

venerdì 17 giugno 2011

Tom Wolfe - IL FALO' DELLE VANITA'

Se volete guardare un film mentre tenete in mano un libro, non fate come me...Vengo spesso rimproverata di non prestare abbastanza attenzione alla visione, perchè non riesco a separarmi dal libro nemmeno quando decido di guardare un film. Molta gente si domanda come io faccia. Non so, ci sono voluti anni di allenamento, oserei dire quasi involontario, ma ci riesco. Il film è un sottofondo e il libro è una voce nella mia mente. Non dico che la concentrazione sia ottimale per entrambe le attività, ma sono abbastanza in grado di percepire il senso e di seguire le principali parti di un film, così come riesco a tenere il filo di ciò che leggo.
Non che ne vada particolarmente fiera, ma ormai dati i quantitativi di letture, ho bisogno sostanzialmente bisogno di guadagnare tempo da dedicare ai libri.

Ma come vi dicevo, non fate come me e non prendete questo brutto vizio. Se volete davvero guardare un film avendo per le mani un libro, vi consiglio di leggere e basta e di leggere 'Il falò delle vanità' di Tom Wolf.
Le immagini scorrono così vivide e plastiche tanto da poterle toccare e ricordano le scene di una pellicola cinematografica. L'incalzare dei dialoghi e le fervide descrizioni della vita cittadina esalano la veracità di una città pulsante. Anzichè leggere, vi sembrerà di guardare e anzichè ascoltare, vi sembrerà di spiare.

Se poi avete un po' di nostalgia delle atmosfere degli anni '80, dello stile yuppy e volete immergervi nel cuore di Manhattan, avete in mano la cosa giusta. Vi sembrerà di vedere l'incidente automobilistico che distruggerà la vita del finanziere di Wall Street Sherman Mc Coy e magari riuscirete a percepire persino gli odori dei quartieri più malfamati della città, come il Bronx e nello stesso tempo vi sembrerà di essere seduti al tavolo di una festa dell'alta società di New York e di avere sopra la vostra testa un lampadario di cristallo e di poter sporgervi da un attico e ammirare Park Avenue. 
Nonostante la mole di pagine, il romanzo ha una scrittura talmente semplice e immediata da non risultare troppo prolissa o dettagliata. 
La storia non la svelo, ma dico solo che tiene incollati fino alla fine e che almeno tre vicende e altrettanti personaggi si stagliano sullo sfondo di una società tormentata dall'equivoco, l'ingerenza massmediatica, la speculazione e gli stereotipi; tutti ingredienti che condiscono un'altrettanto stereotipata società americana, di cui questo romanzo ne costituisce un magistrale affresco.

Il mio voto a questo libro è 7/10.

mercoledì 15 giugno 2011

Washington DC: un piccolo gioiello

Se volete idee per scegliere una meta cittadina per un vostro futuro viaggio negli Stati Uniti, posso suggerirvi una città molto elegante, seria e spassosa allo stesso tempo e di cui si parla poco da un punto di vista turistico.

Vi consiglio Washington DC.

Siamo abituati a sentirne parlare perchè è la sede della Casa Bianca, il luogo dal quale Barak Obama espone i suoi comunicati al popolo americano e perchè è sede di molti monumenti della storia americana.
Poco si dice di questa città in quanto destinazione per una visita turistica. Avendo già visto gran parte delle più famose città americane della costa est e ovest, ho cercato qualcosa di diverso.
Mi aspettavo una settimana invernale terribile, poichè ero lì proprio nel periodo di Capodanno dell'anno scorso. In realtà sono stata molto fortunata perchè non ho trovato nè pioggia, nè neve. Solo belle giornate di sole, con un  po' di vento e un freddo secco e sopportabile.

Pensavo di postare direttamente qualche fotografia e lasciare a voi e alla vostra immaginazione tutti  i commenti. Ho visitato la città per una settimana intera e, a parte la tipica atmosfera americana rassicurante e amichevole, ho respirato, per la prima volta, un clima che oserei chiamare 'cospiratorio'. Forse influenzata dal fatto che Washington sia una città nominata per motivi sempre strettamente politici, ma l'impressione di essere su di un territorio super controllato come questo, mi dava la bizzarra sensazione di vivere dentro l'occhio di un enorme Big Brother o nel bel mezzo di una puntata di X-files.



Ad esempio, da questo punto di vista, mi ha subito colpito la metropolitana. Uno stile direi quasi orwelliano: asettica, geometrica e pulitissima.










La stessa sensazione di stare osservando qualcosa di misterioso, l'ho provata fotografando il palazzo del quartier generale dell'FBI. Nonostante ci sia passata vicino decine di volte prima di riconoscerlo e nonostante si trovi a due passi dall'Hard Rock Cafe, la geometria e la staticità di questo edificio suscitano una certa inquietudine e un vago turbamento.


Una delle ragioni per cui ho sentito Washington molto vicina ai miei gusti è che è davvero affollata di runners. Ho visto gente correre a qualsiasi ora del giorno, in qualsiasi quartiere e parco della città, con qualsiasi condizione atmosferica come in poche altre città americane mi è capitato di vedere. Sarà che, non essendo una città molto grande e piuttosto a misura d'uomo, Washington concilia la voglia di mettersi a correre appena è possibile farlo.


Per chi vuole farsi una vera e propria cultura sulla storia americana o per chi già ne abbia, Washington è ideale. I suggestivi monumenti, prima fra tutti la Casa Bianca, sono la prima cosa da andare a visitare


Questo è il Lincoln Memorial 






























Di seguito, lo splendido panorama sulla famosa 'Reflecting Pool', il Washington Monument e la cupola di Capitol Hill sullo sfondo




Uno dei quartieri più carini della città, al quale si può dedicare quasi un'intera giornata di shopping e passeggiate è Georgetown. La popolazione nera è più evidente e sempre molto folcloristica. Io ero particolarmente attratta dal loro inusuale stile e da una certa bizzarra dissonanza, che si nota tra questo quartiere e il resto della città. Non parlerei di ghetto, perchè l'eleganza della zona e l'evidente ricchezza e cura di tutto ciò che l'adorna non lasciano filtrare alcun senso di povertà o emarginazione








C'è un posto che si chiama Arlington Cemetery dove sono sepolti tutti i Kennedy. L'arrivo all'entrata di questo cimitero militare è davvero spaesante. Sembra che questo posto sia lontano da tutto e da tutti. Una lunga e larghissima strada controllata dalla polizia accompagna i turisti all'interno del campo. All'ora esatta si può assistere al cambio della guardia. In un freddo pomeriggio invernale con un panorama mozzafiato sullo sfondo è stato particolarmente straniante concentrarsi su questi volontari che vegliano sulla tomba del milite ignoto

Dato il mio recente amore per il football americano e data la straordinaria coincidenza di date, sono andata a vedere la mia squadra preferita, i New York Giants, giocare contro la squadra locale i Washington Redskins.
E' stata davvero un'avventura incredibile. Come da tradizione: hot dog, birra, nachos e formaggio fuso e migliaia di fans scatenati e incuranti del freddo. Se vi rimane del tempo da dedicare ad attività extra-turistiche, cercate sempre un evento sportivo. Gli Stati Uniti sono maestri di organizzazione e intrattenimento






Infine, se volete godervi un tramonto del sole che si dilegua dietro alcuni dei pochi e bassi grattacieli di questi città, davvero molto a misura d'uomo e come prima impressione facilmente godibile, spingetevi verso il 'waterfront' e ammirate l'enorme distesa di ghiaccio, sulla quale sembra di poter quasi camminare, formata in inverno dal fiume Potomac


sabato 11 giugno 2011

LETTERATURA DI VIAGGIO - AA.VV.

Si avvicinano le vacanze estive ed è tempo di programmare viaggi.
Una delle parti migliori del viaggio è proprio la preparazione. Innanzi tutto, scegliere la destinazione. Pianificare date e prenotare voli, trovare un degno compagno di viaggio, documentarsi sulla meta, leggere della letteratura a riguardo, guardare qualche film, calarsi nell'atmosfera di una cultura che ci sarà quasi del tutto nuova e nella maggior parte dei casi sconosciuta. Io, di solito, compro anche un piccolo diario di bordo (quasi sempre sono vittima del fascino delle agendine Moleskine dedicate alle città) e guardo delle fotografie del luogo per capire che cosa andrò a scattare e che dettagli inusuali riprendere di una città, di cui magari si è già visto tutto in giro.

In ogni caso la lettura è sempre il mezzo che mi prepara più a fondo. L'acquisto di una guida che a posteriori diventa quasi un cimelio di viaggio, da riporre sullo scaffale della libreria di casa, è un classico. Ma un altro dei piccoli, grandi riti di preparazione è tutta la lettura legata alla meta prescelta.
Nel tempo ho letto tantissima letteratura di viaggio prima di partire e, mi è piaciuto tanto, che a volte ho letto libri che raccontavano di straordinari viaggi, pellegrinaggi, esperienze esistenziali in posti esotici, anche solo per avere l'illusione di partire idealmente. Così per esempio, quando mi assaliva l'urgenza di conoscere qualcosa riguardo a posti piuttosto complicati come la Siberia, ho letto 'In Siberia' di Colin Thubron, che mi ha portato con la mente in questa enorme ed impervia regione e mi ha svelato verità immediate sulle tradizioni e le varie etnie che la popolano. Se, come me, vi pace viaggiare anche senza pagare un biglietto e senza muovervi da casa, potete placare la vostra curiosità leggendo. 'Verso Samarcanda' di Bernard Olivier racconta il percorso a piedi dell'autore lungo l'antica Via della Seta e tocca posti come la Turchia, l'Iran, l'Uzbekistan e la Cina. Ricordo che prima di andare in Giappone lessi 'Autostop con Budda' di Will Ferguson, il quale racconta il suo viaggio in autostop attraverso tutto il paese e ci mette a parte di aneddoti quotidiani davvero esilaranti. Così come 'America perduta' di Bill Bryson narra di una sorta di viaggio all'indietro nel tempo. Bryson rievoca i posti della sua infanzia e li ripercorre, cercando di riprodurre remote memorie del suo passato, attraversando in macchina gli stati centrali dell'America: dall'Iowa fino al profondo sud della Georgia e dall'ovest californiano fino al nordico New England.
Se siete appassionati di estremo oriente potete perdervi  nelle viuzze e nelle esperienza più estreme a bordo di una vespa, quella di  Giorgio Bettinelli che nei suoi 'In vespa' (da Roma a Saigon) e Brum Brum evoca immagini davvero mozzafiato. La stessa emozione me la suscita il ricordo della lettura di Tiziano Terzani con 'Un indovino mi disse'.
Non posso non citare almeno un libro sulla mia amata Mosca e potrei avere solo l'imbarazzo della scelta, ma credo che  'Mosca, autobiografia di una città' di T. Pigareva potrebbe essere sufficientemente esaustivo per invogliarvi ad andare avendo già le idee chiare su cosa davvero cogliere, osservare, vivere di questa città.

Al momento sto cercando letteratura, letture e film su Chicago. Se qualcuno ha suggerimenti, si faccia avanti...

giovedì 9 giugno 2011

Ristorante giapponese ENDO

Come spesso mi accade, la voglia di cibo giapponese mi riporta, come una marea, ogni volta a pensare al mio ristorante preferito...
Mangio giapponese da molti anni, ormai, e la mia prima esperienza fu nel 1993, anno in cui, con un amico di famiglia che arrivava da Osaka, andammo da uno degli allora pochi ristoranti giapponesi di Milano. 
Si chiamava Endo: personale giapponese, arredamento giapponese, menù scritto prevalentemente in giapponese e soprattutto gestione giapponese. Erano gli anni d'oro dell'economia dello stato nipponico, la Bubble Economy aveva dato un fortissimo potere d'acquisto allo Yen in tutto l'occidente e, dunque, tutto ciò che arrivava da quelle parti era oltremodo inusuale, raffinato, elitario e immancabilmente costoso. Di conseguenza, anche mangiare giapponese era davvero oneroso. Il nostro amico Taichiro, però, ricambiava spesso la nostra ospitalità italiana e la preparazione dei manicaretti italiani di mia madre, invitandoci ad assaggiare le prelibatezze di una cucina a noi del tutto ignota.
La scelta di un vero giapponese come Taichiro ricadeva sempre sullo stesso ristorante: Endo.

Avevo solo 17 anni e ricordo molto bene la prima volta che entrammo nel ristorante e da quella volta, nonostante abbia provato moltissimi altri posti, ad oggi, a distanza di 18 anni ancora frequento regolarmente solo e quasi esclusivamente questo austero, affascinate, essenziale e allo stesso tempo simpatico e casereccio ristorante di Via Vittor Pisani 13. Nei miei ricordi di adolescente, il ristorante pareva una nicchia segreta dalla quale dare un po' di realtà all'immaginazione di un'adolescente, che come me credeva che il Giappone fosse solo un cartone animato, un manga o il solito scenario da film di arti marziali. Io, studentessa un po' spaesata e parecchio curiosa, fantasticavo al di là di ogni possibile immaginazione e a poco a poco familiarizzavo con le bacchette, lo strano idioma, l'intenso sapore del wasabi, la salitissima salsa di soia, il prelibatissimo sushi e, in toto, con tutta la cultura annessa all'arte culinaria di un paese straordinario come il Giappone. Il mio primo amore fu per il sushi naturalmente; ero una patita di toro, cioè la parte più prelibata e meno grassa del tonno: sembrava un petalo di una rosa rossa appena colto ed era tenero in bocca come un panetto di burro.
Dal primo amore per il sushi i miei gusti sono cambiati e si sono un po' complicati; ora mi soddisfano cose ben più elaborate oltre a qualche pezzo di immancabile nigiri o maki: prima fra tutti, come avrete già capito, la mia passione per il ramen.

Nonostante la gestione Endo sia cambiata, è rimasta comunque in mani giapponesi. La famiglia Tomoyoshi e in particolare la simpatica signora Masako, gestiscono questo ristorante da molti anni ormai. Nulla è cambiato nell'estetica sempre molto seriosa, ma l'area dedicata al sushi bar dona una vena simpatica e vivace al resto.
La spalliera di legno scuro che riveste la parete principale è sempre lì, come il manto di una casa tipicamente giapponese, proprio come quelle da cartone animato. L'entrata con le classiche tendine (che nell'antica tradizione giapponese servivano a pulirsi le mani prima di consumare il pasto), il piano di sopra con tanto di acquario e un piano sotterraneo con toilette tutta in pietra accolgono quasi come in un'oasi, l'avventuriero metropolitano.
La clientela è il punto forte, perchè proprio come la cucina è (quasi) solo giapponese. Ovviamente questo è e rimane un ottimo segno e anche un ottimo modo per essere calati  nell'atmosfera.
Gli odori, i gusti, i profumi del ristorante sono sempre gli stessi: un po' di alga, un po' di miso, un po' di dashi, un po' di tofu o tè verde. Tutto è Giappone, come una miniatura, proprio come la preziosità di un bonsai. La cucina a vista dalle pentole fumanti ricorda una cucina casalinga. Sarà che ci vado da tempo immemore ormai, ma questo posto è come fosse un po' anche casa mia.
Se avete davvero voglia di cucina giapponese senza troppi fronzoli - che potrete trovare altrove in ogni ristorante giapponese di Milano, immancabilmente gestito da cinesi e frequentato dalla Milano-bene-e-frustrata dal trend modaiolo - iniziate a conoscere questo posto. Io ci ho portato tutti i miei più cari amici e ho sempre fatto un'ottima figura.
Ovviamente potrete trovare di tutto e 'richiedere' di tutto: dalla pizza giapponese Okonomiyaki, alle polpette di riso ripiene Onigiri, allo Shabu-Shabu...tutte cose genuine e molto poco 'alla moda'...

Questo è il link http://www.tomoyoshi-endo.com/.

Il mio voto a questo ristorante è 10 e lode.

martedì 7 giugno 2011

Orhan Pamuk - LA CASA DEL SILENZIO


La ‘casa del silenzio’ è una casa decrepita che sopravvive alle voci di molti. Sepolta in un vetusto passato sta la voce della vecchia Fatma, l’anziana capo famiglia che ormai consuma i suoi ultimi anni di vita logorandosi tra rimorsi e ricordi del proprio defunto marito. Come unico dono le ha lasciato ad assisterla il proprio figlio illegittimo nano Recep. La voce interiore di Fatma, chiusa nella propria stanza, riepiloga il sogno proibito dell’allora esiliato consorte: rompere il confine culturale e ideologico tra Europa e Asia, risvegliare l’oriente e renderlo uguale all’occidente. Quando, come ogni estate, i tre nipoti di Fatma tornano nella casa quel silenzio è rotto da nuove voci. Quella del nipote più grande Faruk – storico fallito e alcolista- che raccoglie documenti per scrivere un romanzo sull’identità nazionale turca, ma che ripeterà soltanto il destino infranto del nonno in un’ennesima enciclopedia ‘perduta’. L’altra è quella del più giovane Metin, studente di matematica con velleità di ricchezza e fama dall’altra parte del mondo e l’ultima quella della progressista Nilgun, pietra angolare dell’intera famiglia e specchio nel quale si rifletteranno le maledette domande del suo antenato, che aveva predetto e scongiurato l’ineluttabile sconfitta. Su tutto e nonostante tutto rimane questa ‘casa del silenzio’, casa avita e natale, ormai in preda ad un lento, inesorabile sgretolamento, ad uno sfacelo interiore.

Pamuk sceglie un coro parlante, rende protagonista ogni personaggio, di ciascuno di essi e delle loro speranze o sogni si condividono il patire e la speranza. Una scrittura che in quanto schietta e fluida, inesorabilmente malinconica si destreggia tra i capitoli ritrovando il filo conduttore della voce ‘mentale’ comune a tutti e a tutto, una trama scolpita e appassionante che con acuta precisione giustappone gli avvenimenti. Non sono storie sconnesse, né slegate l’una dall’altra, neppure troppo lontane dal presente se Faruk è il genio già sconfitto e Metin il futuro in divenire, l’autore spezza il respiro della narrazione soltanto in ultima istanza, culminando in una fine, oggi come allora, alacremente realistica. Il paese di Pamuk, la Turchia in bilico tra oriente e occidente, lancia attraverso queste pagine il suo mai sedato desiderio di rinnovamento e riconoscimento.


Ilmio voto a questo libro è 7/10.

lunedì 6 giugno 2011

Washburn e il blues di Chicago

Finalmente dopo anni di chitarra classica, suonata qui e là per divertimento, ho comprato una chitarra acustica. Nonostante sia spesso una fashion victim, in questo caso l'appeal dei classici e meravigliosi marchi come Fender, Ibanez, Yamaha e via discorrendo, non hanno saputo reggere il confronto con un marchio, di cui fino a qualche mese fa non conoscevo l'esistenza, ossia Washburn.
Come si suol dire, è stato amore a prima vista: la forma a 'D', gli intarsi madreperlacei sulla rosetta, il manico confortevole, la tastiera ben rifinita, un corpo standard e un'elegantissima e originale paletta con tanto di font del marchio un po' vintage e molto folk/blues mi hanno colpito e 'affondato'.
Devo dire che la prima che avevo visto era di un colore grigio/blue petrolio e che io cercavo una chitarra blu, ma la scelta finale è caduta su una rossa fiammante modello EA12-R.
Nonostante stessi per commettere il grave errrore di comprare una chitarra in un megastore, la mia coscienza in ultimo ha avuto la meglio e grazie alla simpatia di un piccolo negozietto - di quelli in via di estinzione - nella mia amata città di Monza e del suo proprietario, sono arrivata all'acquisto.
Quando sono tornata a casa, ero curiosa di scoprire qualcosa di più riguardo alla storia di questo marchio e insieme a quello ho scoperto grandi cose ad esso legate con la storia del blues.

La Washburn Guitars è un'industria produttrice di chitarre (ed altri strumenti musicali) fondata a Chicago nel 1883 a pochi isolati dalla famosa Maxwell Street. La fama di questa strada si deve al massiccio movimento di musicisti di etnia afro-americana dagli stati depressi del Sud degli Stati Uniti verso il Mid-West e in particolare l'Illinois. Già dagli inizi degli anni '20, i cantanti neri portano con sè la sofferenza della schiavitù e la loro attitudine a cantarla all'aperto. Proprio Maxwell Street diventa il posto delle loro successive performances anche negli anni '30 e '40. Portandosi dietro strumenti musicali sempre più amplificati, elettrificati e quindi sempre più udibili dal pubblico e dai passanti della strada, si viene a creare un fortissimo legame tra musicisti del luogo e nuovi arrivi dal sud e inizia a prendere vita ciò che verrà chiamato dapprima urban blues e poi Chicago Blues.

Cantando la propria sofferenza attraverso strumenti più potenti, il blues di Chicago si distingue sempre più dal country blues acustico del Sud e quando - a seguito della depressione economica post Prima Guerra Mondiale - molti musicisti Jazz, provenienti dal cosiddetto Delta Blues, sono costretti a spostarsi verso nord, i primi ad accoglierli sono i commercianti. Questa classe, prevalentemente di origine ebrea, individua in loro una possibile fonte di attrazione per i viandanti e  futuri clienti della Maxwell Street, che potranno ascoltare musica direttamente nei negozi o dagli edifici a fianco dove i nuovi bluesmen produrranno la loro musica. Tra i primi regolari cantanti di Maxwell Street ci sarà Jimmy Davis con oltre 40 anni di performances. Dall'evoluzione del blues, amplificato, rielaborato e magistralmente interpretato da nomi quali Luis Armstrong, Muddy Waters e Bo Diddley nascerà poi il rock'n'roll.

Maxwell Street appare nel film del 1980 Blues Brothers ed è rappresentata appunto come l'ideale dimora di una fervente comunità afro-americana.

Tornando alla mia nuova chitarra, sono molto soddisfatta dell'acquisto, del suono, della silhouette di questo affascinante strumento. Anche se le mie preferenze rimangono orientate verso la musica rock, grazie a questa Washburn sto scoprendo anche l'importanza e il fascino della musica blues di casa in un altrettanto affascinante città come Chicago...Sweet Home Chicago...


sabato 4 giugno 2011

PECHINO E' IN COMA - Ma Jian

Ricordo ancora benissimo il 4 giugno 1989. Sebbene avessi soltanto tredici anni, nella mia mente, sono ancora vivide le immagini del cosiddetto tank man e delle sue prodezze davanti al carro armato, che muoveva la sua proboscide a destra e a sinistra, procedendo a passo d'uomo sulla Piazza Tienanmen di Pechino.
Era una calda primavera inoltrata e ricordo la tv che annunciava la sommossa popolare, le proteste studentesche, mostrava gli slogan e la gente rivolta sul marciapiede, esausta, svenuta e anche battuta dalla fame, dal caldo e dalla violenza. Quella violenza che la Cina di quel tempo non ha raccontato, non ha mostrato e di cui ha lasciato credere che fossero solo fandonie agli occhi di un occidente che reclamava la libertà d'informazione.
Ma se vi capiterà di leggere 'Pechino è in coma' di Ma Jian, potrete scoprire attraverso il racconto di uno dei tantissimi protagonisti, quanta violenza si riversò in quei giorni nell'immensa, formicolante Tienanmen nell'altrettanto immensa e scandalosamente ignara dei fatti Cina di Den Xiaoping.
Di questo libro è straordinaria la cronaca dettagliata dei mesi cha hanno preceduto il massacro di giugno, i racconti dell'audacia e dei sentimenti di decine di migliaia di studenti universitari e la lucida caparbietà dell'autore nel richiamare le vicende politiche e storiche di quel tempo e di quel fatidico giorno noto al mondo.
Insieme a questo, l'impalcatura del libro si sostiene sulla struggente narrazione di Dai Wei, colpito alla nuca da un proiettile inesploso, che lo ha ridotto al coma. La voce di Dai Wei, uno dei tanti studenti che partecipò alle proteste del 4 giugno, arriva direttamente dal suo corpo. Un corpo abbandonato dalla vita, ma attraverso il quale sente e percepisce tutto: la madre che lo accudisce per anni, gli amici che si ritrovano intorno a lui e l'addio della ragazza che lo lascia per trovare fortuna in America.
Un viaggio nell'anatomia della Cina del 1989 e nell'anatomia malata di un corpo di un ragazzo che ha visto i primi bagliori degli smantellamenti del blocco comunista, ne ha raccontato la verità nascosta e infine ne ha vissuto la rinascita da un letto di una casa in via di demolizione per costruire la nuova Cina imperialista e la sua mossa di marketing meglio riuscita finora, come la costruzione dello stadio, chiamato Nido per le Olimpiadi del 2008.
La scrittura di Ma Jian è sofferente come la sua personale vicenda di dissidente e di scrittore proibito nell'attuale Cina, dove ancora non sono stati chiariti dal governo in modo ufficiale i sanguinosi eventi di quel 4 giugno, sui quali vige una rigida censura. Intere generazioni nate dopo il 1989 e residenti nella Cina di oggi non sanno ancora che cosa sia davvero successo allora e poichè la parola 'libertà di stampa' non è nemmeno 'googolabile' dai siti cinesi, a meno di lasciare il proprio paese, non potranno ricostruire i fatti neppure acquistando 'Pechino è in coma' di Ma Jian.

Il mio voto a questo libro è 8/10.

venerdì 3 giugno 2011

GIVE TILL IT'S GONE - Ben Harper

'Give till it's gone' è il decimo disco di Ben Harper prodotto nella sua nativa California, precisamente negli studi di Santa Monica. Il classico disco da grande hit, che secondo me è Don't give up on me now, che mette decisamente in ombra le melodie di tutti gli altri brani. Il classico disco che non è da primo ascolto e dove le tracce delle canzoni non spingono presuntuose per venire fuori dai solchi di un ipotetico vinile e rimanere incollate alle orecchie. Non molto distante dal sound rock-soul di 'White lies for dark times' e nel quale Harper torna a suonare da solo, senza gruppi di supporto come nei lavori precedenti. 
Ma, in ogni caso, la qualità di questo disco rimane davvero molto elevata, grazie anche a collaborazioni di alto calibro come quelle con Ringo Starr in Spilling Faith e Get there from here e quella con Jackson Browne in Pray that our love sees the dawn, quest'ultima una tra le mie preferite insieme al primo singolo uscito e a Feel love, ballata romantica tutta chitarra e voce. 
Ma quello che distingue questo disco dai precedenti è sicuramente l'anima e il sound più rock e funk, che allontana dalla memoria i tratti folk e raggae del passato della prima produzione di Ben Harper. Brani come Rock'n' roll is free e Dirty little lover hanno rimandi e influenze rock hendrixiane e Waiting on a sign ripropone una fugace venatura blues molto piacevole.
Già, ecco, definirei piacevole questo disco. Certo non imperdibile, ma di sicuro una delle migliori uscite discografiche del momento.

giovedì 2 giugno 2011

TRACY CHAPMAN - Tracy Chapman

Uno dei dieci dischi della mia vita ha un nome e cognome: Tracy Chapman.
Si tratta dell'omonimo esordio di Tracy Chapman del 1988. Ormai in molti conosceranno Baby can I hold you, che è sicuramente il brano più famoso, cantato e ricantato da tanti e ormai entrato nell'olimpo dei grandi classici.
Ma oltre a quello, nel disco, si concentrano quasi tutte canzoni di altissima qualità e di estrema delicatezza. La presenza scenica non ha molto a che vedere con questa cantante, che preferisce lasciar parlare, e in questo caso direi, cantare la sua voce: possente, profonda, assertiva, ma sempre estremamente delicata. Una voce 'nera', sofisticata e virtuosa.
Le canzoni d'amore, struggenti e intimistiche, come For my lover, For you, If not now, sembrano sussurrate al buio di una stanza, ma muovono emozioni in modo totalmente dirompente. Impossibile smettere di ascoltare For my lover e non credere di avere appena visto l'uomo che racconta di essere arrivato fino a rinchiudersi in una prigione per amore. Impossibile non immaginare la scena di una violenza familiare e non provare dolore o sofferenza dopo aver ascoltato il brano a cappella Behind the wall. La Chapman racconta storie di vite ai margini della sopravvivenza, come nella magnifica Fast car, la voglia del riscatto di una vita migliore e incita con parole di pietra alla ribellione, scuote le coscienze in Talking about revolution, Across the lines e in Why. Questo disco sembra una completa weltanschauung della Chapman, una confessione al ritmo di una musica blues e folk che sembra voglia raccogliere attorno a sè pochi intimi, farli sedere in cerchio attorno a lei, ricordare loro che il dolore può dare estrema forza, una voce può far vibrare un palazzo intero, una semplice chitarra può recuperare un'esitenza e donarle un po' di pace.
Il sound si avvale di melodie e ritmi molto orecchiabili e cantabili, nonostante la dizione quasi impossibile di questa cantante americana di Cleveland (Ohio). Un folk anni '80 intenso e scuro, per niente noioso e alquanto vivace nonostante la serietà dei temi trattati.
Non è un concept album  ma nella mia visione d'insieme di questo piccolo capolavoro ritrovo un unico, espanso, gioioso e sofferto tema: quello dell'amore per gli altri in tutte le sue sfaccettature.