MATRIOSKla

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domenica 31 luglio 2011

Aleksandr S. Pushkin


Nato a Mosca il 26 maggio del 1799 e morto a San Pietroburgo il 10 febbraio del 1837, Aleksandr S. Pushkin è considerato il padre fondatore della lingua e della letteratura russa di tutti i tempi. Fu scrittore, poeta e drammaturgo ed esemplare esponente del romanticismo russo e mondiale. Ricevuta l'educazione scolastica al liceo di Carskoe Selo si trasferisce in seguito a San Pietroburgo, città che ispirò moltissime delle sue opere, fra tutte 'Il cavaliere di bronzo' e 'Evgenji Onegin'; brevi e celeberrimi romanzi in versi, pietre miliari della letteratura russa. Durante il suo esilio scrisse 'Il prigioniero del Caucaso' e 'Boris Godunov'. Al suo ritorno a Pietroburgo Pushkin conosce Gogol, con il quale fonda la rivista letteraria 'Sovremmenik'.
Nel 1837 la sua vita si conclude così come era stata sempre condotta, al limite tra la finzione narrativa e il suo essere eroico. A seguito di una lettera ricevuta in cui si insinuava la presunta infedeltà di sua moglie, Pushkin accusa il barone francese Georges d'Anthes e viene sfidato a duello . Fissato per le quattro del pomeriggio del 8 febbraio 1837, il duello si svolse alla Cernaja Recka a Pietroburgo, dove oggi si trova l'omonima fermata della metropolitana, dove una statua del poeta ricorda l'evento. Puškin rimase ferito mortalmente. Il barone invece si salvò grazie a un bottone che parò il colpo. Puškin morì due giorni dopo la sfida, ad appena 38 anni.


Nonostante la popolarità dei suoi brevi romanzi in versi e dei suoi racconti, il popolo russo tuttavia ha una vera e propria adorazione per le poesie di Pushkin. La più famosa, quella che tutti imparano a memoria a scuola e che è per i russi ciò che per noi è 'Infinito' di Leopardi si chiama 'Ricordo il magico istante'.
Potete trovare decine di diverse traduzioni di questo titolo. Si tratta di una meravigliosa poesia d'amore.

Qui vorrei proporvi una poesia meno nota, ma altrettanto meravigliosa:


                                             
                                         Sui colli della Georgia la tenebra notturna;
                                                 davanti a me strepita l'Aragva.
                                         Mi sento triste e leggero; la mia tristezza è luminosa;
                                               la mia tristezza è colma di te,
                                         Di te, solo di te... La mia malinconia
                                              niente la tormenta, niente la inquieta,
                                        e il cuore di nuovo arde e ama - perchè
                                              non può non amare.
                            

sabato 30 luglio 2011

Murakami Haruki e 'The year of spaghetti'

Quando sono in astinenza da ramen, mi attacco alle poco raccomandabili confezioni leofilizzate che trovo comodamente al supermercato e, illudendomi che queste possano darmi le stesse sensazioni di un ramen giapponese cucinato in un vero ristorante, mi siedo al tavolo e inizio a gustarmeli.
Tempo fa, trovandomi con la testa quasi del tutto affogata nella scodella e con tanto di bacchette e cucchiaio per gustare (e ahimè anche succhiare proprio come fanno i giapponesi) i miei spaghetti pronti, mi è capitato di ripensare a un racconto del maestro Haruki Murakami.
Ovviamente il collegamento non era poi così improbabile dato che il titolo recita The year of spaghetti.
Si tratta di uno dei 24 racconti contenuti nella raccolta Blind Willow, sleeping woman, che ho letto nell'edizione americana. In italiano il libro si chiama 'I salici ciechi e la donna addormentata' ed è di recente pubblicazione, precisamente del 2010.

Ho provato a fare questo esperimento di degustazione ramen e di lettura, allo stesso tempo, di questo breve racconto, dove Murakami narra la storia di un tizio che non riesce a vivere un giorno della sua vita senza mangiare spaghetti. L'anno in questione è il 1971. 
Ovviamente gli spaghetti in questione però sono italiani. Un giorno, in un momento di quiete di una vuota giornata invernale, il protagonista viene raggiunto da una telefonata. E' la ex fidanzata di un suo amico che la ragazza sta cercando disperatamente. Non volendo impicciarsi degli affari altrui, non rivela alla ragazza alcuna informazione e dovendo inventarsi una scusa per liberarsi di lei, le dice che in quel momento si trova nel mezzo della preparazione di un piatto di spaghetti.
Quasi come se gli spaghetti fossero un'unica àncora di salvezza per fuggire dalla realtà, l'accanito consumatore  riesce a divincolarsi da un'ambigua situazione facendo credere alla ragazza di essere occupato in un'azione materiale probabilmente molto simile ad altre nella vita di chiunque.
In realtà nessuno sa quanto quel trovare ricette e condimenti sempre diversi, quel cucinare spaghetti in modo spasmodico, il dipendere da un'azione ripetuta infinite volte ogni giorno nasconda invece una precisa strategia di sopravvivenza.
Per il protagonista, l'enorme pentola di spaghetti è il posto dove rinchiudere se stesso e il proprio isolamento, è il modo di dichiarare non belligeranza con alcuno, è la volontà di rimanere oltre il confine della vita in una comunità, è l'estraneazione - tra l'altro leit motiv sempre presente nei libri di Murakami - da qualsiasi fatto; la neutralità assoluta.
Cuocere degli spaghetti di grano duro in una pentola 'grande tanto da poter contenere un pastore tedesco' può dare forse l'unico senso alla vita di un uomo esiliato nella sua solitudine. Dunque, dall'ultima parola evidenziata in corsivo dall'autore, si capisce quale sia il senso di questo racconto.
In seguito ad una volontà di autoconfinamento, il 'mangiatore di spaghetti' trova un colore, un nome e un significato al suo stato di abbandono.
Un racconto che ho trovato geniale, perchè è una potentissima metafora, narrata con un tono delicatissimo e attraverso un'immagine che penso nessun italiano, proprio come conclude il protagonista, abbia mai pensato guardando il proprio piatto di spaghetti.

'Can you imagine how astonished the Italians would be if they knew that what they were exporting in 1971 was really loneliness?'

Underground - H. Murakami

Per questa prima metà dell'anno, ho scelto di leggere uno degli ultimi due libri che mi rimangono di Murakami:
'Underground'. Pubblicato tra il 1997 e il 1998 e scritto a seguito del tragico attentato alla metropolitana di Tokyo, Murakami racconta, attraverso interviste ai testimoni e alle vittime, che cosa successe quella mattina di lunedì 20 marzo 1995.
La prima parte delle interviste tenta di ricostruire come alcuni adepti della setta religiosa del culto di Aum abbiano sparso del sarin, un potente gas tossico allo stato liquido, nei vagoni della metropolitana e quali furono le prime disperate reazioni ad un gesto, che agli occhi dell'efficientissimo e sicurissimo Giappone, sembrava in quei momenti drammatici davvero inspiegabile. Le vittime, in seguito, raccontano il proprio personale coinvolgimento, il loro terrore e le conseguenze di un veleno che ha modificato in modo permanente le loro funzioni psicofisiche.

L'ultima parte del 'romanzo giornalistico' - così come viene classificato questo libro - raccoglie una serie di interviste ad alcuni affiliati della setta di Aum, le storie di come certi abbiano deciso di farne parte e da dove ne sia nata l'esigenza.

Leggendo alcune critiche, ne risulta che questo libro sia troppo di parte, cioè estremamente contrario alla setta di Aum. Mi chiedo come possa essere il contrario, mi chiedo come uno scrittore giapponese così influente e sensibile come Murakami, tanto da dedicare la propria scrittura alla stesura di questo libro, possa non schierarsi e definirsi neutrale.
La cosa davvero singolare di questo libro è che tuttavia non spiega quale effettivamente sia la motivazione di questo attentato, cerca solo di intuirlo o di proporlo attraverso la realtà dei fatti. La follia omicida di questo insulso gesto risiede semplicemente nella megalomania del capo di Aum Ashara Shoko, che fondò questa setta nel 1987 con lo scopo di conquistare il potere in Giappone e nel mondo intero.
Impossibile rimanere indifferenti a questo racconto, che proprio come un gas tossico assale le vie respiratorie, trascina nel terrore di quei momenti e getta in un'angoscia che perseguita per giorni. Superata la prima parte delle interviste, si riesce ad abituarsi alle immagini mentali che questo libro evoca.
Da leggere preferibilmente non di sera prima di addormentarsi, per evitare incubi e senza aspettarsi che vi sia alcunchè di romanzato. Purtroppo in questo caso, la penna di Murakami è stato solo un mezzo. Non vi è nulla di artistico, ma solo una oscura e turpe realtà.

Il mio voto a questo libro è 6/10.

Twilight - Il film

Avevo già accennato alla noia cosmica del libro, alla banalità della trama ma, come in passato vi ho detto, ogni tanto mi addentro nell'oscura logica del gusto popolare, che mi incuriosisce al punto da dover esprimere un'opinione personale, a seguito di una prova esperita con i miei occhi.

Dunque ho deciso di vedere il film, uscito ormai da parecchio tempo, precisamente nel 2008 e di dare una seconda possibilità a questo successone mondiale.
Nonostante la riconferma di una trama piuttosto fiacca, ho trovato il film un po' meno noioso del libro. Ma lo dirò subito, solo ed esclusivamente grazie alla musica e ad una scena in particolare, dove il potere di una bellissima canzone come Supermassive balck hole è davvero dirompente; la scena della partita di baseball giocata da questi 4 o 5 allegri vampirelli. Mi chiedo come sia stato possibile che un gruppo come i Muse si sia prestato a tanto, ma d'altronde capisco che anch'essi, probabilmente, hanno un prezzo da pagare ai padroni discografici per la loro immensa fama. Per fortuna che i miei amati, no che dico osannati, Radiohead hanno associato una delle loro più riuscite e forse commerciabili canzoni 15 step solo alla sigla di chiusura. Avevo letteralmente le orbite fuori dagli occhi quando l'ho trovata lì. Cercherò di pensare che è solo colpa delle solite mosse di marketing.

Comunque, scherzi a parte, la patina del filmone emerge tutta dai volti levigati degli attori, dalla dirompente giovinezza dei sentimenti e dei protagonisti, che a metà tra l'ombrosità del fenomeno emo e l'eterno entusiasmo della scoperta dell'eros, tengono con il fiato sospeso milioni di adolescenti.
Nonostante tutto questo film tiene, ma una volta letto il film, tiene solo per la colonna sonora e per la curiosità di vedere come questo Robert Pattison conquisterà il cuore della sua Bella. Altro non ho da dire.

Il mio voto a questo film è 6/10.

venerdì 29 luglio 2011

Airportman

Uno dei motivi per cui mi innamorai perdutamente dei Rem fu la realizzazione dell'album 'Up'.
Si tratta di un disco uscito ormai più di dieci anni fa. Esattamente nel 1998.
Un album che ha segnato probabilmente una svolta nel sound dei Rem, perchè a mio avviso ha reso l'ascolto della loro musica molto più complicato e molto più raffinato. Può darsi che Michael Stipe avesse deciso, allora, di fregarsene delle regole di commerciabilità del prodotto discografico e che avesse cominciato a scrivere davvero tutto quello che aveva dentro. Il primo singolo fu Daysleeper, con un tempo e una cantabilità pressochè impossibili, ma con una ricercatezza di stile e di topic al di sopra di ogni aspettativa e forse al di là del passato più folk rock della band dei tempi di 'New adventures in hi-fi', di 'Automatic for the people' o dello stesso 'Out of time'.

Personalmente, ho amato Up alla follia. L'ho ascoltato e riascoltato, e cosa strana, ricordo di averlo comprato da un mio compagno di università che piuttosto che buttarlo via me l'aveva lasciato a buon prezzo, ancora in lire italiane ovviamente, poichè lo riteneva del tutto inascoltabile. Pazzo!
Sì, c'è voluta molta pazienza e molta fiducia per apprezzare questo disco, ma poi la sua introspettiva bellezza, tutta la sua meraviglia architettonica nascosta in un disegno impercettibile che si potrebbe tracciare tra le vette iperboliche di LotusAt my most beautiful, Walk unafraid, Why not smile, Daysleeper e Parakeet e le intime pizzicate di Suspicion, The apologist, Sad professor, You're in the air e Diminished si rivelò in tutto il suo magniloquente splendore. Se unite i punti tra le varie canzoni, in un astruso arzigogolo della vostra fantasia, quasi certamente si estenderà davanti a voi una qualche semisconosciuta costellazione. Non so da dove Michael Stipe abbia tirato fuori tali sonorità,  ma non è un caso che per molti album ancora, fino almeno a 'Around the sun' abbia continuato a farlo.
Un disco ispirato da un nuovo modo di concepire la musica, forse simile solo a quello dei Radiohead, ma meno alienante e più solitario.

Sarei curiosa oggi, a distanza di tanto tempo, di sapere se quel mio compagno di università si sia poi ricomprato il disco. Come potete vedere in fondo alla pagina, ho inserito 'Up' nella classifica dei dischi più influenti della mia vita, ma questo disco non ha classifiche; ha un vero e proprio personale posto nel firmamento di un qualche ignoto sistema solare.

Casualmente, per una strana combinazione di eventi a me del tutto sconosciuti, in questo disco si trova una canzone di cui vorrei davvero conoscere l'ispirazione e la fonte. Forse Michael, come me, ama gli aeroporti per aver scritto una canzone intitolata Airportman, che ovviamente per me è diventata un inno e quasi un rito ascoltare prima di un viaggio.
Questa canzone e il suo criptico testo, che piuttosto mi sembra una poesia psichedelica post-moderna scritta osservando dalle vetrate di un aerostazione, è in verità il motivo per cui avevo iniziato a scrivere questo post, che non è una recensione del disco.
Vi lascio assaporare il testo, vi lascio alla sua interpretazione e alla sua trasposizione terrena, se mai vi riesca di farlo, per svelarne l'ambiguo messaggio; un viaggio 'fluorescente' nella eterea voce di Stipe.
                            


                                                     "Airportman"

                                                   He moves efficiently
                                                      Beyond security.
                                               Great opportunity awaits.
                                                    Airport fluorescent
                                                     Creature of habit
                                            Labored breathing and sallow skin
                                                         Recycled air
                                                     Moving sidewalks
                                                 Great opportunity blinks.
                                                 Great opportunity blinks.
                                                         Discounted.

                                                     The people mover
                                                     The people mover
                                                         Discounted. 



giovedì 28 luglio 2011

The Ramen Girl

Vi ho già parlato della mia passione per i Ramen, cioè gli spaghetti di soba giapponesi in brodo. E' questa passione che mi ha spinto, ovviamente a cercare informazioni in rete su questo piatto.
Mi sono imbattuta in un film davvero coinvolgente, sebbene molto romanzato rispetto alla realtà, che si chiama 'The Ramen Girl'.
Diretto da Robert Allan Ackerman e uscito nel 2008, è la storia di Abby una ragazza americana appena abbandonata dal fidanzato, che si ritrova da sola a Tokyo.
In preda alla più cieca disperazione, una sera decide di recarsi un ristorante dove si servono solo Ramen.
Assodato il potere 'rigenerante' che questo piatto ha sui clienti e su se stessa, Abby decide di riprendere in mano la sua vita e imparare a cucinare questa specialità.
Come una sorta di versione femminile di 'Karate Kid', Abby si presterà, all'inizio, a sopportare le umiliazioni e le discriminazioni di un cuoco-padrone severissimo e privo di qualsiasi fiducia nelle possibilità della ragazza.

La leggerezza del film facilità la conoscenza stessa con il cibo e la cultura giapponese, il finale piuttosto indovinabile ne impoverisce l'idea e lo rende leggermente inverosimile, ma per chi come me è in astinenza di Ramen a vita, questo film può essere un buon surrogato per placarsi la voglia di spaghetti.
L'idee che riescono a emergere dal film sono l'attaccamento alle tradizioni del Giappone nei confronti della propria arte culinaria, l'estrema dedizione al lavoro, l'impegno per riuscire nel proprio intento, a tutti i costi. Idee a metà tra i soliti stereotipi giapponesi e le aspirazioni di tutti.

Il mio voto a questo film è 7/10.

Chicago O'Hare International Airport e il fascino degli aeroporti

Adoro gli aeroporti. Adoro gli spazi immensi che non appartengono a nessuno, la promessa di un luogo che è il crocevia e insieme il trampolino verso un volo che ti porterà in un paese sconosciuto. Adoro l'aria di plastica che emana dagli aspiratori. Adoro la solitudine nel caos. L'isolamento.
Adoro il brulicare della gente che trascina il proprio bagaglio colorato e tiene stretto fra le proprie mani passaporti sui quali si leggono, o non si leggono, i nomi in lingua originale dei paesi di provenienza. E' affascinante immaginare un enorme amplificatore mentale dei pensieri attraverso il quale ascoltare all'unisono tutte le lingue del mondo, provenienti da tutte quelle teste in cammino.
E' affascinante osservare le divise scintillanti delle più svariate compagnie aeree, le loro procedure di check-in e imbarco, ricordare le sigle delle città di destinazione, leggere i nomi delle capitali o delle principali località del mondo.
E' quasi surreale pensare che l'aeroporto non abbia una vera origine, un'identità; è una terra di nessuno. E' un posto di transito, un purgatorio terreno, un satellite.
I passeggeri hanno ognuno la propria storia, le proprie manie, i propri volti. Il loro paese ha una bandiera, ma quale sarà? E lo scopo della loro visita o della loro dipartita quale sarà?

L'aeroporto è un luogo che non esiste, ma esiste. Ha un odore, ma in realtà ne ha infinite varietà. Ma soprattutto è un luogo dove non esistono mai requie, nè notte e neppure la fine del giorno.

Ho lavorato in aeroporto, precisamente a Milano-Malpensa.
Di quel tempo mi è rimasto nella memoria una cosa fra tutte: l'odore dell'aeroporto. Ognuno ha il proprio.
Quando entro a Malpensa sento l'odore del caldo della divisa da check-in agent appena indossata, sento l'odore delle valigie appena fatte, miste alla plastica del banco di registrazione. Sarà che Malpensa mi ricorda il mio passato lavoro, ma comunque ha un odore.

In vista del mio futuro viaggio a Chicago, sono curiosa di conoscere l'odore dell'O'hare International Airport.
Per ora di questo aeroporto so appena le informazioni fondamentali. Fu aperto nel 1955 e intitolato al pilota Edward O'hare, pilota di marina durante la Seconda Guerra mondiale. La sua sigla è ORD. E' situato a soli 27 chilometri nordovest dall'area di Chicago chiamata Loop. E' il principale hub della United Airlines (cioè il cuore della città), nel 2008 ha avuto una media di 2409 operazioni giornaliere e prima del 2005 era l'aeroporto più trafficato del mondo in termini di atterraggi e decolli. 
Ad oggi è il terzo aeroporto più trafficato al mondo con 67 milioni di passeggeri annui e il secondo degli Stati Uniti, dopo Hartsfield Jackson di Atlanta. E' stato votato, da alcune riviste specializzate nel settore per 10 anni di seguito, come l'aeroporto migliore di tutto il nord America.
Purtroppo ha anche il secondo record peggiore del mondo in merito a ritardi, dopo il JFK e il La Guardia di New York, a causa delle impervie condizioni climatiche invernali. 

Le foto che ho trovato su Internet e che vedete qui postate sono solo un primo assaggio. Ne farò di mie durante il viaggio, perchè del viaggio fa parte, ovviamente, anche la scelta obbligata o meno di un aeroporto.

martedì 26 luglio 2011

Death Note - Shusuke Kaneko


    « L'umano il cui nome viene scritto su questo quaderno morirà »

Per me Death Note è stato amore a prima vista già quando scoprii per puro caso il manga.
Ricordo che mi bastò una rapida occhiata per capire che mi interessava il genere e che la storia non aveva troppi mostri o insulsaggini, ma aveva un fondamento davvero interessante.
Come mia abitudine, non vorrei svelare la storia, soprattutto perchè vorrei parlarvi del film, il primo della saga.

Yagami Light è un teenager giapponese che trova, un giorno, uno strano quaderno: il Death Note. La sua particolarità è che, chiunque ne venga in possesso, potrà scrivervi il nome e cognome di un essere umano e questo morirà nel tempo e con le modalità descritte dal possessore.
Questo almeno è quello che fa Light, che stanco di una sempre più impunita criminalità che imperversa nel suo paese, si farà giustiziere del male e deciderà chi uccidere e chi risparmiare nel tempo in cui avrà con sè il quaderno. Light, figlio di un poliziotto, sarà Kira (traslitterazione fonetica della parola inglese Killer) che cercherà di sfuggire alla caccia globale messa in atto da uno dei più singolari e astuti investigatori privati del Giappone, L (pronunciato el).

Il manga pubblicato nel 2003, costituito da 13 volumi, nasce da un'idea a dire poco geniale di Tsugumi Ohba ed è disegnato da Takeshi Obata. Il film diretto da Shusuke Kaneko del 2006, cerca di raccontare questa ancestrale lotta tra il bene e il male e il conflitto terreno tra giustizia e libero arbitrio. Sicuramente il manga, che già diventava parecchio dettagliato e articolato nell'anime, vanta una completezza e una ricchezza di particolari che sfuggono al film. Personalmente trovo che l'attore che interpreta Yagami Light (Tatsuya Fujiwara) sia troppo 'bambolotto' e quasi una rock star, ciò che nel manga non emergeva. Viceversa, il ruolo di L , è assai più difficile e la sua stranezza affiora sapientemente dalla vena artistica dell'ispirato attore (Ken'ichi Matsuyama), che lo interpreta.
Al di là del film e della storia, credo che il successo di questa idea sia nell'universalità dei sentimenti che essa è in grado di suscitare: mania di onnipotenza in primis, rabbia, audacia, ribellione. La combinazione potentissima di emozioni e sentimenti che si riversano in questo straordinario esperimento di moralità, portano una tale forza al valore del Death Note come arma, che quasi ci si dimentica che lo sia e per un po', o forse per l'intera durata della storia, si spera che Light, nonostante operi il male, voglia in realtà generare il bene, come una sorta di Faust, come un Mefistofele dei nostri tempi. 
Infine, il tocco di commercialità e di main stream non manca; la musica dei Red Hot Chili Peppers come colonna sonora ne connota certamente il successo e la risonanza anche nel mondo occidentale e allunga il suo tentacolo su un successo super annunciato, che visto quello del manga e dell'anime, non poteva che trovare una ulteriore conferma nel film.

Consiglio a chi non ha mai letto il manga, di recuperarlo e di gustarsi a fondo il duello mozzafiato e complicatissimo delle strategie dei due protagonisti, di guardare l'anime e infine giudicare il film, che forse acquista un valore maggiore solo in funzione dei sequel 2 e 3, di cui parlerò più avanti.

Il mio voto a questo film è 8/10.

lunedì 25 luglio 2011

Awaiting Chicago

I viaggi durano sempre troppo poco e dunque, chi come me, si sente sempre in viaggio o vorrebbe sempre esserlo, parte con la mente molto prima che sia il nostro aereo a farlo. Ma come?
Io, ad esempio, ho tutto un mio rituale di preparazione del viaggio e questo, quasi sempre, inizia almeno due settimane prima dell'effettiva partenza. A volte anche prima.

1. Scelgo la destinazione, e questa può dipendere da innumerevoli ragioni che sono troppo ampie e forse scontate per essere discusse. Insomma...ognuno sceglie dove preferisce andare. Per queste vacanze estive ho scelto Chicago. Perchè? Perchè volevo tornare negli Stati Uniti, perchè volevo visitare un'altra grande città americana di quelle che mi sono rimaste nella lista e perchè Chicago è la vera città americana, la Second City, come la chiamano, dopo New York, per tutte le sue bellezze architettoniche e culturali e non ultima la musica.

2. Cerco la guida turistica migliore da acquistare, quasi sempre insieme ad una agendina Moleskine, possibilmente dedicata alla città e comincio a darne una prima lettura e a compilare l'agenda delle prime informazioni utili.

3. Traccio degli itinerari e mi annoto i posti da non perdere. Ovviamente, navigo su siti web della città, cerco blog di gente che c'è stata e mi informo. Per quanto riguarda Chicago, ho trovato un sito bellissimo che si chiama Architettura&Viaggi. E' qui che ho scoperto come l'architettura di Chicago costituisca per la città una delle maggiori attrazioni. esiste una vera e propria scuola di Chicago; è qui che è nato il primo grattacielo. Grazie alle immagini che girano su Internet e ad alcune testimonianze di persone che ci sono state, ho scoperto che la scelta sembra proprio azzeccata. Io adoro le città futuristiche e i loro contrasti temporali e culturali con le tradizioni più antiche. Chicago è la città del blues, un genere musicale che ancora conosco poco. Dunque quale migliore occasione per immergersi completamente nel mood.

4. Leggo romanzi che parlino della città. Questo è davvero un momento topico per me. La caccia al libro, che sia ambientato nella città o nel posto dove vado è un classico di cui non posso fare a meno.
Ovviamente i romanzi devono coincidere con i miei gusti letterari e quindi a volte, come nel caso di Chicago, può risultare difficile trovare esattamente ciò che mi interessa. Ho acquistato 'La giungla' di Upton Sinclair. Il libro ambientato nel posto di destinazione di solito mi aiuta a prepararmi all'atmosfera che troverò, mi aiuta a individuare nomi e posti che andrò a vedere, mi catapulta nella mentalità, nel gergo, nelle abitudini del luogo. Impossibile non trovare niente. C'è sempre qualcosa.

5. Ascolto musica di band e cantanti del luogo e guardo film, che come i libri, devono essere ambientati nel posto. Per Chicago ho trovato un bel po', per primo: 'The blues brothers', ma anche 'The weather man', 'Alta fedeltà', 'Wicker park' 'Fermate la colomba bianca', 'Ti odio, ti lascio', 'Chicago' e chissà quanti altri ce ne saranno. Per quanto riguarda la musica, primi fra tutti ci sono gli Smashing Pumpkins, poi i Wilco, gli omonimi Chicago e tutta la musica blues di Muddy Waters, Ray Charles e ci metterei anche Eric Clapton, anche se non è nemmeno americano, ma è un vero bluesman.

Insomma, tutto questo e molto ancora mi sta accompagnando in questi giorni verso la data della partenza e anche se saranno solo pochi giorni, tutta questa pre-gustazione, dilata ad infinito l'esperienza del viaggio, lo anticipa, mi dà l'idea dell'aspettativa, mi crea delle immagini mentali che esaltano il gusto del viaggiare. Perchè il viaggio è cultura, è conoscenza, è scoperta anche attraverso una canzone o un film.

Non vedo l'ora di atterrare a O'Hare...

domenica 24 luglio 2011

Vasilij Grossman - Tutto scorre...

Se siete lettori spaventati dai voluminosi romanzi russi, ma volete farvi un'idea di quello che è successo in Unione Sovietica durante più o meno tutto l'arco dello scorso secolo, potete leggere questo buon libro: 'Tutto scorre...' di Vassilij Grossman.
Quando ne ho scorso il titolo in libreria mi è subito venuto alla mente un delicato e quantomai fatalista verso poetico di Sergeij Esenin. Era lui che diceva vse proidet kak s belijch jablon dym....cioè tutto scorre come fumo sui bianchi meli. Esenin ebbe un tragico destino come poeta, la Russia sovietica ne ha avuto, ahimè, uno altrettanto devastante.
Forse questo titolo non è lì per caso. Forse riassume in solo un breve accenno la caratteristica fatalità dell'animo russo; un animo destinato molto spesso ad essere calpestato, maltrattato e incompreso.
Allo stesso modo, Grossman riassume in questo breve romanzo il ritorno a Mosca dopo trent'anni di vita nel lager di Ivan Gregorevic. Ivan è un ex-detenuto, che non ritrovando un suo naturale collocamento nella sua città e non sentendosi nemmeno più un vero cittadino sovietico, ormai privo quasi di dignità, completamente spiazzato dall'incalzare dei tempi, si sposta verso sud, trova lavoro e si innamora.

Ma la storia vera non è proprio questa. C'è un passo, o meglio una frase, che sembra collegarsi al verso del poeta, che Ivan pronuncia: 'come è potuto succedere tutto questo?'. Come se il protagonista si voltasse indietro a riguardare i suoi ultimi trent'anni e non trovasse più niente, solo quel fumo che è scorso sui bianchi meli, senza che la Russia se ne accorgesse.
E' qui, in questo libro dalla potente forza riassuntiva e rievocativa, che potete iniziare a capire che cosa sia successo nella Russia sovietica, come l'esperimento comunista sull'umanità russa abbia imperversato riducendola a nulla.
Ecco che Grossman, attraverso le parole di Ivan o sovrapponendosi ad esse, ammette il triste approdo di un paese nella totale spersonalizzazione. Da Lenin, a Stalin, fino a Krushev potete leggere quali fossero le grandi speranze di un'ideologia fallita e tutti i sui atroci effetti collaterali su una popolazione, che per secoli non ha visto altro che schiavitù e sottomissione al potere.
Davvero un ottimo libro da cui partire e poi eventualmente approfondire con decine di altri romanzi dello stesso genere, fra cui: 'Vita e destino' dello stesso autore, 'I racconti della Kolyma' di Varlam Shalamov, 'Una giornata di Ivan Denisovic' e il mastodontico 'Arcipelago Gulag' entrambi di Aleksandr Solzhenizin; tutti romanzi accomunati da un tempo che è trascorso in una brutale storia ancora recente e che continua a scorrere nelle migliaia di pagine, che oggi ci ricordano le disgrazie del popolo russo.

Smashing Pumpkins e l'infinita tristezza

Sebbene non abbia inserito nella classifica dei dieci dischi più influenti della mia vita 'Mellon Collie and the Infinite Sadness', ringrazio il decennio anni 90 per averci regalato questo magnifico capolavoro di Billy Corgan e compagni. 
Per me gli Smashing Pumpkins sono Billy Corgan e tutta la sua disperata solitudine. Impossibile non collegare la sua tormentata vita privata con quello che ha scritto, impossibile ignorare la profondità dei suoi dolori. Per fortuna, anche lui non ha parlato di dolori amorosi, ma di un mal de vivre, che si addice perfettamente agli stati d'animo giovanili. 
Quando penso a questo disco, quando lo ascolto e quando lo tengo tra le mani sento l'urlo di Corgan che mi lacera gli emisferi cerebrali e che sentenzia: 

                                                  THE WORLD IS A VAMPIRE

e non appena inizia la canzone e il ritmo incalza, sento che sono già diventata un ratto in gabbia e sento la rabbia feroce di un Corgan glabro e quasi angelico nella sua innocenza spettrale, che mi canta nelle orecchie:

                                                   DESPITE ALL MY RAGE
                                                   I'M STILL JUST A RAT IN A CAGE

Anche soltanto per questi brevi versi, mi sento beata per aver vissuto il 1995, anno di pubblicazione di questo disco. 
Mi è fisiologicamente impossibile non citare un altro verso, che per la prima volta nella mia vita ha dato uno spartito, una linea melodica, una chitarra e una voce al VUOTO assoluto. Parlo di una canzone di quest'album che si chiama 'Zero', in cui un Corgan claustrofobico snocciola tutto in un fiato

                                                   EMPTINESS IS LONELINESS AND
                                                   LONELINESS IS CLEANLINESS AND
                                                   CLEANLINESS IS GODLINESS AND
                                                   GOD IS EMPTY JUST LIKE ME

Nel 1995 mi sono diplomata e allora la terra da sotto ai piedi è diventata acqua e quando ho ascoltato seduta per terra nella mia stanza 'Tonight, tonight' per la prima volta, mi è parso di vedere le acque scure di una città 'presso il lago', (il lago Michigan) arrivarmi da sotto e ho visto i miei piedi bagnati dalle rive di quel lago, mentre ho creduto di vedere l'amata città natale di Corgan: Chicago, citata nella canzone.
'Tonight, tonight' è una delle più belle canzoni di tutti i tempi, a mio modesto parere. E' una cartolina notturna spedita dalla solitudine, dall'inquietudine, dalla fragile amarezza di Billy Corgan; un inno alla sua tormentata giovinezza, alla sua amata città, alla sua inettitudine. Leggetevi il testo e poi scoprirete che questo disco è un libro. Se vi ricordate ancora come si fa ad acquistare un disco vero, di plastica (purtroppo), leggetevi il booklet dei testi. 
La prima traccia è proprio 'Tonight, tonight', non a caso secondo me, che ambienta nella oscura, fredda, storicamente malavitosa e seducente Chicago tutta la vampiresca dannazione di un disco imperdibile; da leggere come un libro, da vivere e soffrire come una scrittura sacra grazie al talento lirico di Billy Corgan, che ha davvero pochi eguali. 




                                                   "Tonight, Tonight"

                                         Time is never time at all
                      You can never ever leave without leaving a piece of youth
                                   And our lives are forever changed
                                        We will never be the same
                                The more you change the less you feel
                                       Believe, believe in me, believe
                          That life can change, that you're not stuck in vain
                               We're not the same, we're different tonight
                                              Tonight, so bright
                                                     Tonight
                                     And you know you're never sure
                                     But you're sure you could be right
                                     If you held yourself up to the light
                               And the embers never fade in your city by the lake
                                       The place where you were born
                                        Believe, believe in me, believe
                                        In the resolute urgency of now
                               And if you believe there's not a chance tonight
                                               Tonight, so bright
                                                      Tonight
                                        We'll crucify the insincere tonight
                               We'll make things right, we'll feel it all tonight
                               We'll find a way to offer up the night tonight
                               The indescribable moments of your life tonight
                                       The impossible is possible tonight
                                   Believe in me as I believe in you, tonight

venerdì 15 luglio 2011

Hibiscus: fiore delle Hawaii

Parlando di Hawaii, vi ho accennato il fiore d'Hibiscus. 
In primavera ho comprato una bella pianta di Hibiscus giallo. Sono sempre stata attratta da questo fiore, perchè trovo che sia sfacciatamente bello.
Si apre il mattino e mostra tutta la sua bellezza, quasi come mostrasse la sua nudità. I petali sembrano delle ali tanto sono grandi e il pistillo così perfettamente disegnato e scolpito emerge da un cuore rosso fiamma e sembra quasi trafiggerlo.

Sapevo già che era il fiore simbolo delle Hawaii, l'avevo notato sulle magliette, sulle famose camicie hawaiane e sui bermuda della Sundek, che è una marca d'abbigliamento surf che amo particolarmente. L'ho notato anche sulla targa dello stato hawaiano e mi sono informata riguardo alle sue origini. Alle isole Hawaii esistono più di 2000 specie di Hibiscus diverse. Alcune provenienti dalla Cina si sono incrociate con le specie endemiche hawaiane, dando origine a piante spettacolari. Sebbene la natura del fiore sia piuttosto fugace - infatti dura un solo giorno e poi si chiude - è in realtà una pianta che può raggiungere anche alcuni metri di altezza ed è molto resistente sia ai periodi di siccità e quindi al caldo, che al freddo e alle gelate. 
Nell'antichità, questo fiore aveva una certa simbologia. Il linguaggio amoroso ottocentesco si è sbizzarrito su questo fiore. Donare uno di questi fiori così leggeri e delicati, che fanno una brevissima apparizione e poi muoiono, significa esaltare una bellezza fugace e fulminea.
Ogni mattina mi sveglio, vado sul mio terrazzo e spero di trovare uno dei tanti boccioli fioriti. E' una piccola soddisfazione quotidiana godere del loro fulgore.



giovedì 14 luglio 2011

Banzai e surf

Mi sono spesso chiesta che cosa significasse il termine Banzai. L'ho sempre associato a quelle trasmissioni buffe e demenziali tipo 'Giochi senza frontiere' in versione giapponese. In effetti la parola in giapponese significa 'Diecimila anni' ed è usata in questa lingua per esprimere incoraggiamento, entusiasmo e gioia.

Senz'altro avrete sentito usare questa parola in altre situazioni. Io, per esempio, conosco un posto che si chiama in questo modo. Si tratta di un ristorante di cucina italiana a base di pesce, situato in una graziosa località di mare che si chiama Santa Marinella e si trova in provincia di Roma.
Il ristorante è sulla spiaggia; una spiaggia solo sassolini e arbusti che ricordano il fondo del mare che forse un tempo arrivava oltre la riva ad oggi conosciuta. Poco oltre il ristorante la spiaggia diventa privata, ma è proprio lì che mi piace andare. In realtà nessuno viene a reclamare niente, quasi sempre non c'è nessuno e si può camminare per chilometri e arrivare fino a vedere il Castello di Santa Severa a picco sul mare. Nonostante non mi piaccia l'Italia, questo è uno dei pochi posti ai quali sono particolarmente legata.
Dopo un bel bagno e un sano isolamento, di solito vado a mangiare al ristorante.
Ho visto delle recensioni spiacevoli su questo locale e me ne dolgo perchè è vero che è abbastanza costoso, ma si mangia prevalentemente pesce fresco. La specialità è la frittura di paranza. Provate a mangiare la stessa quantità di pesce a Milano o dintorni e poi ne riparliamo del prezzo.
Certamente è un posto dove è meglio andare con le infradito e i bermuda che non vestiti da sera, d'altronde siamo sulla spiaggia con una vista spettacolare sul mare e soprattutto un enorme senso di libertà.

Dicevo che per me è un posto magico, un gateaway estivo per una mini vacanza relax che di solito mi concedo la prima settimana di luglio.
Un giorno ho scoperto una cosa fantastica, ho scoperto che questo ristorante aveva preso il nome da un Surf Club che si chiamava Banzai, appunto; e questo voleva dire che nei dintorni c'era qualcuno che faceva surf.

Nell'estate del 2008 li ho trovati. Ho trovato i surfisti proprio alla spiaggia di fronte al ristorante Banzai e alcuni ragazzi mi hanno raccontato di come quello sia uno dei Point Break più conosciuti d'Italia e conosciuto anche nel mondo.
Non potevo credere a quante e quali combinazioni di elementi ci fossero a comporre una magica pozione come quella di questo posto: mare, buon cibo, gente semplice, libertà e surf. I miei elementi.
Forse non dovevo svelare questo spot segreto, proprio come fanno i surfisti più accaniti, che non rivelano mai doveva vanno a surfare.
Ma quest'anno sono stata fortunata ancora una volta e nella prima settimana di luglio ho trovato il mare agitato e un gruppo di surfisti che mi hanno intrattenuto tutto il pomeriggio con le loro performaces.
Mi ero portata dietro la Holga fotocamera con tanto di set di filtri colorati e ho cercato di immortalare qualcosa. Non riesco a resistere dal postare alcuni scatti e dunque ecco che tutto è rivelato...









mercoledì 13 luglio 2011

NEBRASKA - Bruce Springsteen

Quando ascolto quest'album, che ho scoperto da poco, nonostante sia ormai abbastanza datato, mi sembra piuttosto di leggere un libro o di ascoltare una storia.
Mi siedo sul divano, oppure, dato il caldo di queste sere, mi accomodo sul terrazzo di casa e assorbo le note iniziali della fisarmonica della title track Nebraska, certamente una delle più rappresentative di tutto l'album. L'atmosfera è soffusa, le luci nella mente sembrano basse, quando la voce del Boss rompe il silenzio di fondo che permea questo disco, nonostante la musica.
Nel 1982 Bruce Springsteen si chiude nella sua stanza e comincia a 'raccontare', raccontare delle storie che sembrano film e dunque a quel punto sembra di 'vedere', vedere la vastità terrestre  e allo stesso tempo lunare delle desolate Badlands del Nebraska o del Wyoming. La chitarra acustica, la fisarmonica e l'America selvaggia, ancora primigenia si scaraventano nelle orecchie e affondano con un tonfo nell'anima.
Atlantic City con un ritmo leggermente più andante ti sveglia dal torpore per un attimo, fino a quando la malinconia riecheggia nei lunghi fraseggi di fisarmonica di Mansion on the hill.
Johnny 99 e Highway Patrolman sono storie raccontate da un uomo seduto al tavolo con davanti un bicchiere di whisky e la chitarra tra le braccia, sono storie amare e politicamente impegnate, radicali e allo stesso tempo magnificamente umane. Sono storie dell'America deserta, disseminata di arbusti, strade scolpite nei canyon dimenticati dalla civiltà. Highway Patrolman è una canzone che è diventata veramente un film (the Indian runner) grazie alla maestria di Sean Penn, che in qualità di regista ha trasformato in pellicola questa storia e ne ha fatto un piccolo cammeo cinematografico. 
Poesia e folk sono un'ottima combinazione perfettamente miscelata in questo disco, con sporadici accenni di rock and roll come Open all night. Un disco che trasuda l'America depressa, l'ovest brullo e sconfinato quasi quanto un intero continente. Un disco meraviglioso come colonna sonora di un viaggio negli States. Se avete in programma di andarci in vacanza e non vi piacciono i film degli indiani e dei cowboy, ma piuttosto preferite l'uomo con il cappello in testa e la sigaretta in bocca, appollaiato nella sua stazione di servizio in una città dimenticata a metà strada nel cuore degli Stati Uniti, ricordatevi di portarvi una copia di questo disco.

Il mio voto a questo disco è 8/10

martedì 12 luglio 2011

Boris Pasternak - la poesia d'amore e il Dottor Zhivago

Boris Leonidovic Pasternak nasce a Mosca nel 1890 in una famiglia di intellettuali di origini ebraiche. Il padre era un pittore e la madre una concertista. Il suo primo amore fu la musica e studiò composizione al conservatorio, ma dopo aver scoperto di non avere 'l'orecchio perfetto' dovette abbandonare la musica e si dedicò alla letteratura. Studiò dunque filologia all'Università di Mosca e successivamente filosofia a Marburgo in Germania. I suoi esordi artistici sono legati alla poesia di influenza simbolista e si trovano in raccolte quali: 'Il gemello nelle nuvole' (1914); 'Oltre le barriere' (1917) e una delle più famose fu 'Mia sorella la vita' (1922).
Successivamente le sue composizioni poetiche risentirono dell'eco dei fatti storici che influenzavano la sua stessa vita e quella dell'Unione Sovietica: 'L'anno 1905' (1927); 'Il luogotenente Schmidt' (1927); 'Sui treni mattinali' (1943); 'La vastità terrestre' (1945). Le sue prose invece hanno risonanze e influenze dei suoi studi musicali: ''L'infanzia di Zenja Ljuvers' (1918); 'Il salvacondotto' (1931).
Dal 1946 Pasternak si dedicò alla stesura del suo romanzo capolavoro 'Il Dottor Zhivago', nonostante si abbattesse sull'Urss la persecuzione contro gli 'intellettuali deviazionisti e borghesi'. 'Il Dottor Zhivago' fu pubblicato nel 1957 proprio in Italia e in appendice furono inserite alcune delle più belle poesie dell'autore, tra cui la famosa 'Amleto'.
Nel 1960 Pasternak vinse il premio Nobel per la letteratura, ma per motivi politici non uscì dal proprio paese per recarsi a ritirare il premio e la stampa sovietica dedicò all'avvenimento soltanto un trafiletto sulla pagina di un giornale, ignorandone sempre il valore e il riconoscimento.

Leggevo Pasternak sui banchi di scuola a 16 anni, di nascosto dal professore d'italiano. Leggevo le sue poesie e sono state e rimangono le poesie più belle che abbia mai letto nella mia vita, nonostante il mio amore per Majakovskij. Pasternak è 'il poeta' per eccellenza, quello che cerchi nella tua adolescenza per esprimere tutta quella tragicità che senti dentro e tutto quell'amore che un giorno dedicherai a qualcuno. Sono felice di aver incontrato nella mia vita la dolce, struggente e assai russa poesia di questo autore e sono felice di averla condivisa con le persone più importanti della mia vita. Di Pasternak ho amato alla follia il suo romanzo capolavoro, Il Dottor Zhivago, che ancora oggi reputo il libro più bello che sia mai stato scritto nella storia della letteratura mondiale. Beati quelli che ancora lo devono leggere....beato chi un giorno si sentirà chiamare e capirà che i suoi libri glieli avrà mandati Barìs...
Mi è davvero difficile scegliere solo una poesia per rappresentare quest'autore e invitarvi a conoscerlo. Ma ho deciso che ne sceglierò una che una volta mi è stata dedicata e di cui ancora conservo un ricordo sublime.

POESIA D'AMORE

Nessuno sarà a casa
solo la sera. Il solo
giorno invernale nel vano trasparente
delle tende scostate.

Di palle di neve solo, umide, bianche
la rapida sfavillante traccia.
Soltanto tetti e neve e tranne
i tetti e la neve, nessuno.

E di nuovo ricamerà la brina,
e di nuovo mi prenderanno
la tristezza di un anno trascorso
e gli affanni di un altro inverno,

e di nuovo mi tormenteranno
per una colpa non ancor pagata,
e la finestra lungo la crociera
una fame di legno serrerà.

Ma per la tenda d'un tratto
scorrerà il brivido di un'irruzione.
Il silenzio coi passi misurando
tu entrerai, come il futuro.

Apparirai presso la porta,
vestita senza fronzoli, di qualcosa di bianco,
di qualcosa proprio di quei tessuti
di cui ricamano i fiocchi.

lunedì 11 luglio 2011

Hawaii, Hawaii....Magnum P.I. e il Vietnam

Mi ricordo che negli anni 80 la parola Hawaii evocava l'ideale di luogo di vacanza esotica per eccellenza.
Gli anni 80 erano anche i tempi in cui tutto ciò che era americano era 'necessariamente' bello, giusto e buono.
Spero di non essere l'unica a conservare questo tipo d'impressione e a ricordare che, tutto sommato, l'ombra della Guerra Fredda e del mondo diviso in due parti nettamente distinte, cioè l'est europeo e l'Occcidente, era davvero incombente.
Dunque la sottile propaganda filo-americana di cui era costantemente vittima il nostro paese, faceva sembrare magnifico ed esemplare tutto ciò che avesse una provenienza statunitense. Il mito delle Hawaii ha 'campato' per almeno tutto quel decennio grazie alla spinta ideologica che le sorreggeva.

Oggi, a distanza di anni, forse si può avere un'idea leggermente più neutrale di questo arcipelago, nonchè cinquantesimo stato degli Usa. Ma credo che nell'immaginario collettivo, ancora si pensi alle Hawaii come al posto di vacanza da sogno.
Forse ciò era dovuto anche all'influenza che lo show televisivo Magnum P.I. aveva avuto nell'immaginario collettivo.
Magnum P.I. è stato un mito, il suo protagonista Tom Selleck è stato un sex-symbol degli anni 80, la Ferrari rossa 308 GTS un oggetto di desiderio nella mente di tanti.
Di recente ho letto un libro intitolato 'Aloha Magnum', scritto da Larry Manetti, che era il 'Rick', amico di Magnum nello show. E' un libro di ricordi e aneddoti relativi agli anni in cui gli attori e la troupe televesiva hanno girato lo show e grazie a questo libro si possono scoprire i veri volti degli attori, le loro personalità, manie e si può continuare a sognare ancora un po' quel mito, anche se ad oggi, ormai, rimane piuttosto lontano.

Su un canale televisivo che ripropone repliche di diversi show, più e meno recenti, stanno trasmettendo, proprio Magnum P.I. e lo sto riguardando. Ovviamente con occhi diversi, con un'attenzione del tutto nuova rispetto a quella che avevo quando ero appena adolescente.
Risultato: le Hawaii su di me hanno ancora fascino. Certamente ora è un fascino diverso, l'interesse è cambiato. Sono più attenta ai particolari.
Ora riconosco i nomi delle diverse isole: Oahu, The Big Island, Maui, probabilmente le più famose e poi Kauai, Molokai e Lanai meno conosciute. La capitale è Honolulu, ma si cita spesso anche Waikiki, che insieme alla capitale è stata un'icona simbolo come località turistica hawaiana e subito ricorda la spiaggia affollata, l'ombrellino nel cocktail  e la barca con la vela colorata.
Le Hawaii sono isole vulcaniche e quindi hanno scenari mozzafiato, una vegetazione rigogliosa, scogliere impervie e lussureggianti, tutti panorami che durante le puntate di Magnum P.I. si possono beatamente ammirare e sognare. E' tipica l'immagine della Ferrari rossa che scorrazza sulle strade asfaltate dell'isola di Oahu, quasi a precipizio sulle scogliere o ai bordi di spiagge paradisiache riprese dall'alto, non lontane dalla meravigliosa villa del quale l'investigatore privato più famoso d'America è ospite.
Lo scrittore Robin Masters infatti l'ha assunto per occuparsi, insieme al meticolosissimo maggiordomo britannico Johnathan Higgins, della sicurezza della sua villa; abitazione in riva al mare che oggi si può ancora trovare e visitare sull'isola.
I particolari che osservo oggi sono soprattutto quelli che riguardano le mode, l'abbigliamento, l'oggettistica del decennio anni 80, quando ad esempio, indossare la Lacoste in spiaggia e le polo Ralph Lauren per fare a pugni era, qui da noi, quasi sacrilego.
Così come avere una Nikon reflex con teleobiettivo era davvero un lusso e Magnum P.I. se ne serviva nel telefilm (come si chiamavano all'epoca) durante i suoi appostamenti, al limite del rischio. Allo stesso modo, il Rolex Gmt acciaio con la ghiera rossa e blu che indossava, era un orologio super chic e ad oggi è diventato un oggetto di culto. Lo si poteva osservare fin nei minimi particolari in una precisa puntata - la mia preferita in assoluto - che portava il titolo di 'Ritorno a casa', durante la quale Magnum rimane naufrago in mezzo al mare dopo essere caduto dalla sua canoa e lontano da tutti si ritrova ad affrontare un'intera giornata e una notte nelle pericolose acque del Molokai Express (una zona interessata da una forte corrente marittima così chiamata) e addirittura l'avvicinamento di uno squalo.
Mancano forse soltanto le mie amate balene a questo show, le quali costituiscono in realtà un'attrazione esilarante per chi si reca su queste isole d'inverno. E' qui che i più mastodontici mammiferi dell'oceano vengono a svernare, a giocare, a nutrirsi e anche a salutare le centinaia di passeggeri a bordo delle navi turistiche, che si spostano a largo per osservare questi amichevoli cetacei. Si dice che non sia raro riuscire ad avvistare loro e il loro spruzzo o respiro d'acqua quando riemergono dalle profondità, persino da riva.
Alle Hawaii non è raro dover affrontare la forza del mare, per questo motivo oggi più di allora mi attira questo posto, perchè è qui che si fa il vero surf.

Jaws, North Shore e Pipeline sono tutte località che hanno assunto un significato speciale per i surfisti e gli appassionati di surf come me; è qui che si tengono durante gli inverni Hawaiani le più grandi sfide e gare di surf. 
Lo sport in Magnum P.I. ha un ruolo davvero dominante. D'altronde si conosce bene quanta importanza diano gli Stati Uniti d'America a tante discipline sportive. Per questo, forse, uno dei più noti simboli d'America di quel tempo - appunto Tom Selleck/Magnum P.I. - doveva avere un fisico spettacolare ed eccellere in tante discipline, tra cui, surf, canoa, basket, pallavolo e softball. In questo modo l'uomo americano risultava più forte, più allenato e più atletico di chiunque altro agli occhi del mondo occidentale.

C'è un altro leit motiv, probabilmente il più serio tra tutti, che si ritrova davvero spesso nelle puntate di questo show e che non posso non citare, nonostante non c'entri molto con le Hawaii. Ma forse in certo senso c'entra, perchè le Hawaii sono state il posto in cui i giapponesi attaccarono la flotta statunitense a Pearl Harbor nel Pacifico, causando così l'ingresso degli Usa nella seconda guerra mondiale. Magnum e i suoi amici Rick e TC sono tutti reduci di una guerra più recente, quella del Vietnam. Forse dovrei tenere il conto, ma sono certa che quasi tutte le puntate abbiano un rimando a questo tragico evento storico. I protagonisti, ex marines, portano ad esempio tutti un anello che li accomuna, che riproduce la croce di Lorena (un simbolo che fa parte della trazione militare), Magnum stesso indossa un cappellino da baseball, anch'esso tratto caratteristico del personaggio, con la scritta 'Da nang', città vietnamita sede di una base aerea americana e i ricordi di quella turpe esperienza di guerra attanagliano violentemente le loro coscienze. Devo dire che, al contrario di quello che ricordavo, una volta tanto il governo degli Stati Uniti viene spesso ridicolizzato e condannato dai protagonisti per come ha condotto quella guerra. Non c'è sempre vittimismo, piuttosto amarezza e disincanto. Questi reduci sono uomini duri.
Certo è difficile dirlo quando si vede Magnum mangiare i pop corn e bere la sua birra davanti alla tv nella casa degli ospiti della villa del Signor Masters, oppure quando lo si vede indossare la famosa camicia hawaiana rossa con i fiorelloni, seguita da analoghe varianti. Eppure a distanza di anni, si dice che addirittura dietro quella camicia hawaiana si nascondesse una bella mossa di marketing proprio a favore delle isole Hawaii.
Essa non era altro che un modo per creare pubblicità e glamour a favore di queste isole meravigliose.
Di recente ho potuto vedere di persona, esposta al museo di arte pop di Washington, proprio la più famosa delle camicie hawaiane di Magnum donate dall'attore stesso dopo la conclusione di questo, che ormai è diventato uno show di culto per gli amanti degli anni 80.

Prima o poi spero di visitare le Hawaii, per vedere che effetto fa di persona calpestare le isole del surf, dei vulcani, dei fiori di Ibiscus e del cibo di influenza giapponese data la vicinanza geografica e scoprire se, come diceva il baffuto investigatore Magnum P.I. in una puntata, se questo sia davvero 'un posto ideale per dimenticare i propri guai'....

giovedì 7 luglio 2011

I LOVE SHOPPING - Sophie Kinsella

Nonostante la mia risaputa caratteristica di scegliere oculatamente i libri che compro seguendo precisi criteri di interesse, c'è un esercizio che almeno una volta all'anno faccio. Cioè leggo un libro che detesto, un libro che non comprerei mai, un libro di cui disprezzo il contenuto, la trama, l'autore, l'ambientazione, lo stile e soprattutto tutta l'ingiusta fama, popolarità e fanatismo che si porta appresso.
Voi direte: 'non si può giudicare un libro dalla copertina', giusto? Mai avere pregiudizi, mai fermarsi su un preconcetto e dunque, siccome io sono una grande sostenitrice della libertà di pensiero e parola, devo dare almeno il beneficio del dubbio anche ai libri, che secondo il mio istinto, sono scritti soltanto per:

1) Vendere, vendere, vendere
2) Rincretinire, rincretinire, rincretinire...o se fossi più politicamente corretta 'intrattenere, intrattenere, intrattenere'
3) Sfottere la gente...ok, meglio se dico, creare stereotipi

Avevo cominciato per caso ad assumere questa politica di par condicio con un libro che, avendo ricevuto in regalo dovevo, più  o meno, per forza leggere. Si trattava di 'Uomini che odiano le donne' di Stieg Larsson. Circa o più di 500 pagine di tedio ed insignificante protrarsi di una trama a dir poco banale, trita, ritrita insomma, assolutamente indegna di tutto questo successo editoriale post mortem dell'autore. Meglio se il povero defunto l'avessero lasciato in pace.
Ho continuato, poi nell'anno successivo, con 'Twilight' dove la parola 'banale' è non solo un eufemismo, ma un complimento. L'unica cosa interessante di quel libro era che per la prima volta leggevo qualcosa di ambientato a Seattle, ma di Seattle dopo la prima pagina non si dice nulla. Dunque potevano ambientarlo anche a Caronno Pertusella in provincia di Milano.
Mi sono buttata nel main stream italiano con Faletti, perchè Camilleri è davvero troppo, ma troppo, ma troppo. Di Faletti ho almeno apprezzato lo stile, nonostante la prolissità (ma io adoro la prolissità) e lo sforzo creativo. Sono passata a Dan Brown con 'Angeli e Demoni', non così male nell'intreccio, ma privo di qualsiasi bravura stilistica.

Ma il fondo l'ho toccato settimana scorsa, quando ho deciso di prendere in prestito in biblioteca 'I love shopping'. Mi sono detta: 'Ma sì, via...perchè essere sempre così snob nella lettura? Vediamo se questa Kinsella riesce davvero a rincretinirmi...ops...volevo dire intrattenermi.
397 pagine di nulla...dico 397 pagine. Il nulla....Ma cosa succede alla gente? A quelli che comprano la Kinsella? Ne ha scritti almeno altri 6 dopo questo esordio. Non posso crederci. Ma cosa c'è che tiene incollata la gente alle pagine di una scema, bisbetica, superficiale, materialista, arrivista oca come Becky Bloomwood?
Ma soprattutto me la prendo con l'autrice. Ma cosa voleva dire la Kinsella quando ha scritto questo libro? Qual era il suo messaggio? Ah...forse che le donne pensano solo allo shopping, ignorano i solleciti bancari delle carte di credito in rosso, cercano di farsi impallinare da uomini ricchi e vogliono allo stesso tempo avere un sacco di soldi propri  da poter spendere in migliaia di schifezze.
Grazie Sophie Kinsella, grazie perchè la donna di oggi, emancipata, istruita, superiore alla razza maschile, indipendente e rampante può finalmente andare in libreria, farsi consigliare una lettura leggera da un qualsiasi commesso ignorante assunto in un qualsiasi megastore di una bella metropoli, tornare a casa, oppure salire in metropolitana, oppure sedersi in aereo e identificarsi con questo stereotipo invertebrato di donna che è il tuo personaggio Becky.
Ma come si può scrivere un libro che anzichè leggere sembra di tartagliare. Frasi mozzate, periodi di tre frasi senza un aggettivo che non sia 'carino, simpatico, stupendo'?
Come si può scrivere un libro che non ha un inizio e una fine e sembra il diario segreto di una quattordicenne in fase di crescita?
Credeva di far ridere? Secondo me fa ridere per quanto è ridicolo, ridicolo leggere tutte queste fandonie.
Ma perchè, perchè la gente le legge? Perchè non sposta il suo naso un po' più in là, perchè non ha spirito critico?
Va bene, ho smesso di cercare di rispondere a queste domande un sacco di tempo fa, ormai. Non importa.

Io sarò per sempre grata a questa scrittrice, perchè non ha fatto altro che confermare la mia teoria sfacciatamente snob e superficiale per cui so che non appena un libro esce, entra primo in classifica, vende milioni di copie, viene seguito da almeno altri 3 capitoli e si vanta di essere un best seller, allora so che sarà sicuramente un rifiuto letterario, un relitto editoriale destinato a vagare nelle borse, sugli scaffali del popolino più gretto e ignorante grazie alla sua pura e semplice imbecillità.

Grazie Sophie Kinsella, ora so per certo, perchè ti ho letto e ne ho le prove, che il tuo libro è una misera pagina di stupidità e falsità in mezzo ad un oceano di vera cultura letteraria.

Il mio voto a questo libro è 0/10

mercoledì 6 luglio 2011

COME ERAVAMO

E' una vita che vorrei citare questo film e parlarvene giusto un po' per non rovinare la sorpresa...Ho fatto in tempo a rivederlo già due volte nonostante l'abbia scoperto pochi mesi fa.
Gli attori promettevano un'ottima interpretazione: Barbra Straisand e Robert Redford, freschi, brillanti e bellissimi portano con sè il candore e insieme l'ardore indissolubilmente legati agli anni della loro giovinezza consumata negli anni 70.
Il regista, dimenticavo...il grande regista Sidney Pollack ha tradotto su pellicola una storia d'amore dannatamente amara e l'ha cosparsa d'ingredienti tipici della commedia americana: tradimenti, errori, tragedie e ritorni. Ma è una commedia amara perchè le differenze caratteriali dei due protagonisti hanno il sopravvento sulla loro storia d'amore e ne determinano il sorgere il tramontare della stessa. 


Kate fin da studente, è una filo-comunista consumata e ossessionata dalla sua coscienza politica. L'impegno sociale la travolge in mille attività di propaganda: comizi, programmi radiofonici e volantinaggio. Un personaggio tutto Sturm und Drang, una donna corazzata ma non per questo insensibile all'amore che la folgora e la schiaccia, quando conosce Hubbel, il biondo e sportivo marine e aspirante scrittore.
Più che Kate e Hubbel, nella mente rimangono impressi i nomi di Straisand e Redford e i loro volti. L'una pasìonaria e ribelle, pronta a tutto per difendere le proprie idee, con fulgidi occhi cerulei pronti all'annientamento di sè, pur di seguire un Redford, in qualche modo travolto dall'amore per la Straisand, ma mai del tutto convinto della loro affinità elettiva. 

Come sempre ritrovo nei film, che chiamo capolavori, un messaggio un'idea o un concetto espressi dalla storia come enorme metafora. Il messaggio di questo film potrebbe essere che l'amore è potente, ma non può ogni cosa. Nemmeno con la più bieca, ottusa, annichilente devozione si può conquistare il cuore di chi non è destinato a noi. La Straisand sarebbe pronta a far tacere la sua voce, a cambiare la sua personalità, persino il suo aspetto, piuttoato di tenere con sè Hubbel. Lui di contro, è un disincantato, superficiale che arriva al tradimento per leggerezza, ama la vita mondana, non condivide l'impegno politico, è sostanzialmente un epicureo.
Si intuisce per tutta la durata del film la fragile impalcatura di questa strana relazione. La scena finale è uno struggente sproloquio consumato durante un incontro casuale sulle strade di New York. Hubbel non ha più niente o quasi, a parte il suo lavoro e Kate ha sposato uno sconosciuto, la vita dei due protagonisti è ormai separata nonostante abbiano una figlia in comune.

C'è una frase di Hubbel che riassume perfettamente Kate e il loro amore contrastato: 'Tu non ti arrendi mai, eh?'. Già, Kate è un'eroina senza paura e così come non voleva rinunciare all'amore di Hubbel, adesso continua la sua lotta politica, il suo impegno sociale. Il nuovo pericolo è la bomba atomica, come la bomba esplosa dentro di lei che le ha demolito il cuore. 

Barbra Straisand è commovente in questo finale: i riccioli castani, gli occhi profondi, un certo personale e un megafono che urla la sua disperazione interiore per tutta New York. 
La Straisand canta la canzone colonna sonora del film e dal quale è stato tratto il titolo originale in inglese 'The way we were'. Ancora una volta la musica e le immagini sono una cosa sola.

Il mio voto a questo film è 9/10.